L’incontro

l’icona della Presentazione al Tempio – 2 febbraio

Il significato etimologico della parola liturgia è “azione a favore del popolo” e, analogamente, l’icona è dipinta per produrre e stimolare un effetto benefico nel fedele e non per dare solennità ai suoi contenuti sacri.

In sostanza, le icone sono pensate per il nostro bene e non fine a se stesse. L’immagine iconografica ha una specifica finalità: fissare una pienezza, una definitività, un culmine sottolineandola anche in singoli episodi.

Presentazione al Tempio – Affresco della Macedonia

 

È così che in un particolare avvenimento della vita di Cristo, la sua Presentazione al Tempio, fra i personaggi che compongono questa scena, c’è anche il vecchio Simeone che accoglie il Bambino. Questo dettaglio è diventato un soggetto sacro degno di essere collocato, nella teologia dello spazio sacro, al centro dell’abside, proprio nel cuore dello spazio presbiteriale. Del resto, basta riflettere un attimo e si capisce che Simeone ebbe premiata la sua fiduciosa attesa del Messia e nel momento in cui stringe il Bimbo fra le braccia non può che esprimere la pienezza della sua gioia giunta al culmine e non desiderare nulla di più. Dal suo cuore scaturisce allora quell’inno (Nunc dimittis) cantato tutte le sere a compieta dalla Chiesa orante. Continua a leggere

Riflessioni sulla teologia, sull’estetica e sull’ermeneutica dell’Icona

Queste riflessioni nascono da un continuo confronto e passaggio dall’esecuzione dell’icona alla riflessione su di essa, e dalla riflessione sull’icona a quella sulla Sacra Scrittura, guidata, quanto al metodo, dalle indicazioni offerte dai  primi teologi e pensatori cristiani, i Padri della Chiesa,  confortata dal fatto che questo metodo è tuttora vivo nelle chiese cristiane d’Oriente.
La mia esperienza è inoltre di confronto con il modo di vivere l’icona da parte della Chiesa d’Oriente, in particolare quella ortodossa russa, che in questo momento sembra vivere un particolare momento di giovinezza spirituale.
 
 

Ritengo che la Verità contenuta nella Scrittura sia la stessa che viene “scritta” nell’icona, secondo l’espressione di Teodoro studita (VII-IX secolo), ripresa dalla Lettera dell’attuale Pontefice in occasione del XII centenario del Concilio di Nicea, che dice: “Ciò che da una parte è espresso dall’inchiostro e dalla carta, dall’altra, nell’icona, è espresso dai diversi colori e da altri materiali”(Duodecimum saeculum § 10). Penso che ciò sia valido non solo in riferimento alla forza didattica o illustrativa dell’icona, come se si trattasse di una semplificazione per gli illetterati (biblia pauperum), ma con la stessa carica semantica, con la molteplice ricchezza di significati di cui è dotata la Scrittura, con la differenza che, mentre la Parola è percepita col senso dell’udito, l’immagine è percepita dal senso della vista. Continua a leggere

L’arte dell’icona, esposizione con sezione didattica

Mostra di MantovaL’arte dell’icona
Esposizione di icone contemporanee della scuola d’iconografia
dell’Abbazia di Maguzzano, Lonato (BS)
Con sezione didattica
13 -23 Giugno 2013
Mantova, Museo della città, Palazzo San Sebastiano

Vedi i dettagli

Corso Estivo di Iconografia


CORSO d’ICONOGRAFIA

da lunedì 17 a mercoledì 26 giugno 2013

a Villa Immacolata – Torreglia (PD)

Il corso

Cristo Pantocrator, immagine di repertorio (i soggetti specifici per il corso saranno assegnati direttamente ai partecipanti)

Cristo Pantocrator, immagine di repertorio (i soggetti specifici per il corso saranno assegnati direttamente ai partecipanti)

Il corso propone l’esperienza della pittura completa di un’icona, attraverso tutte le sue tappe,  evidenziandone la tecnica, l’estetica e la teologia in essa racchiuse.

Non pretende di formare da subito degli iconografi (per questo si richiedono anni di apprendistato) : vuol fornire delle concrete chiavi di accesso all’arte sacra in vista di trarne benefici a diversi livelli:

  • l’approfondimento del senso del mistero dell’Incarnazione, grazie alla quale il nostro Creatore ha assunto un volto visibile e raffigurabile ;
  • la scoperta della dignità di questo lavoro di raffigurazione del volto di Dio che supera l’esperienza artistica  soggettiva e diventa servizio ecclesiale ;
  • accorgersi come il mondo materiale del creato può concorrere efficacemente a questa raffigurazione quasi ne fosse misteriosamente predisposto.

Il corso è una piccola esperienza che può avere risonanza e illuminare ambiti più vasti come l’intera nostra vita, la preghiera, la liturgia, i rapporti interpersonali…

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Maria speranza per l’umanità: mostra iconografica

“Maria, speranza per l’umanità” è il soggetto  della mostra iconografica in programma a Bassano del Grappa, nell’ambito  del prossimo Festival Biblico.
Appuntamento  giunto all’ottava edizione  che dal 18 al 27 maggio prossimi propone  il grande  tema della Speranza.

mostra “Stupore del sacro”

CENTRO PARROCCHIALE SAN SEBASTIANO VIA ROMA 41 – VIGONZA (PD)

La mostra “Stupore del Sacro”,  che si svolge presso il Centro Parrocchiale San Sebastiano a Vigonza (PD) in via Roma 41, presenta le Icone delle Grandi Feste nella tradizione liturgica.

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Arte sacra: l’icona – La sapienza pittorica al servizio della fede Milano 25 febbraio 2011

ARTE SACRA: l’icona

La sapienza pittorica al servizio della fede

25 febbraio 2011 – ore 21            parrocchia SS. Trinità           via G. Giusti, 25 – Milano

introduzione all’arte sacra e in particolare all’iconografia

a cura di Giovanni Mezzalira, maestro iconografo

  • accenni alla tecnica pittorica con tempera all’uovo
  • proiezione di diapositive di opere del passato
  • lettura di alcuni simboli teologici

L’attenzione che negli ultimi decenni si è data all’icona e alla sua riscoperta rivela che non è completamente annullato in molti artigiani artisti quel desiderio di creare oggetti di culto e devozione secondo la Tradizione. Continua a leggere

Incontri di riflessione sulla Teologia dell’Icona

Ciclo di incontri tenutisi nell’ambito delle attività della scuola di Iconografia San Luca.

docente: Annarosa Ambrosi

  1. Collegamenti con il pensiero antico non cristiano.
  2. Il pensiero cristiano.

1. Collegamenti con il pensiero antico non cristiano.

Obiettivo del presente ciclo di tre incontri: individuare i fondamenti teorici dell’efficacia dell’icona nel trasmettere il sacro, sia nel passato come ai nostri giorni. In particolare, individuare quei riferimenti teorici cui fa riferimento la definizione del Concilio Niceno II (878) secondo cui “le cose rinviano l’una all’altra in ciò che raffigurano come in ciò che senza ambiguità esse significano” (da: MENOZZI, La Chiesa e le immagini, ed. s. Paolo 1995, p.102).

Posizione del problema

Come si sa, fin dall’inizio i cristiani hanno fatto uso di immagini (figure come la colomba, il pesce, l’ancora, la nave, scene bibliche o particolari), testimonianti in genere la speranza di salvezza dei credenti. Però, di fronte alla domanda se rappresentare o meno il volto di Gesù, avranno dovuto sicuramente fare i conti con il primo comandamento (Es.20,4 e Dt. 4,15-18), dato che Egli si qualificava come Figlio di Dio. Nella Chiesa dei primi secoli abbiamo varie posizioni:

  • forte corrente iconoclasta (Eusebio di Cesarea e Concilio di Elvira),
  • favorevoli a un uso didattico delle immagini (analfabeti, non necessariamente in senso culturale, ma come deboli di spirito – valore anagogico, unitamente alla Scrittura, cui comunque sono inferiori (Ipazio vescovo di Efeso, Gregorio Magno papa),
  • favorevoli, con valutazione positiva del ruolo delle immagini, sulla base del parallelo parola-immagine, tra cui Giovanni Damasceno, Massimo il Confessore: riconducibili a un filone di pensiero mistico-platonico,
  • Teodoro Studita monaco, patriarchi Niceforo e Fozio: filone aristotelico; – concilio di Nicea II.

Nascita di una teologia dell’icona con aspetti di continuità rispetto alle correnti mistiche.

Dal VI secolo si va verso lo sviluppo di una teoria dell’immagine in continuità con le filosofie di tipo mistico-contemplativo. Ciò opererà la trasformazione dell’immagine di culto in icona, e ciò avverrà quando si affermerà che il Prototipo rappresentato è in qualche modo presente nella sua immagine, che diventa icona in quanto partecipa della realtà del rappresentato. All’origine di queste riflessioni stava probabilmente la recezione cristiana della dottrina neoplatonica di Dionigi l’areopagita, secondo la quale Dio si riflette in una armonica discesa gerarchica, dalla dimensione trascendente a quella immanente, attraverso una serie di gradi che compongono la struttura dell’universo. La contemplazione dell’immagine, che è un riflesso di Dio, consente all’uomo di ripercorrere la gerarchia in senso ascendente, giungendo dal piano materiale a quello spirituale. L’immagine, come depositaria della presenza del divino, si avvia pertanto ad assumere, nella Chiesa delle origini, una funzione liturgica e sacramentale.

Il passaggio teorico da immagine a icona richiede la comprensione del concetto di simbolo, formulato fin dall’antichità, sulla base di una consuetudine con valore concreto, prima che teorico. Se ne trova una utilizzo nel Simposio di Platone (191d), dove si attribuisce a uno dei protagonisti del dialogo la seguente frase: “Ognuno di noi è dunque la metà (symbolon) di un umano resecato a mezzo …” . Egli si rifà alla consuetudine di usare come segno di riconoscimento una delle due parti della tessera spezzata: l’autenticità era provata dal perfetto combaciare delle parti. Ricordiamo che per Platone la realtà è una copia del mondo ideale, gli assomiglia, partecipa di esso, nella realtà il mondo trascendente si manifesta, quantunque in maniera sbiadita e soggetta al mutamento. Nell’ambito del platonismo si sviluppa perciò una concezione simbolica della realtà: esiste un mondo visibile che è simbolo di quello invisibile, il quale può essere conosciuto se si ammette tra i due un rapporto di analogia o corrispondenza, rapporto non convenzionale, ma ontologico, sostanziale. In virtù di tale legame, il simbolo possiede un potere interno di rappresentazione. Vi possono essere altri tipi di legami (mimesi, metessi, parusia), tra cui quello di somiglianza, che, però, è più debole, e destinato ad affievolirsi, di mano in mano che ci si allontana dall’elemento trascendente. Questo ambito di pensiero è terreno favorevole a una concezione “forte” (= che attribuisce grande efficacia nella comunicazione col mondo trascendente) nella teologia dell’icona.

Invece nella teologia dell’icona che matura all’interno della tradizione aristotelica (Teodoro, Niceforo, Fozio – IX sec.) l’immagine non partecipa sostanzialmente, ontologicamente della realtà divina: rappresentante e rappresentato rimangono due realtà diverse, ma, per omonimia, si riferiscono alla stessa persona. L’omonimia non è un legame forte e si presta all’equivocità (una parola = tanti significati). Secondo questa concezione la venerazione passa dall’immagine materiale alla divinità per omonimia non equivoca.

Ma torniamo al pensiero simbolico. Poiché esso teorizza la possibilità di trasmettere contenuti di verità tramite immagini sensibili, facendo corrispondere ad esse idee o realtà invisibili, può far leva anche sull’immaginazione, e la fantasia, accendendo l’emozione e il sentimento. In tal senso il contenuto invisibile potrà penetrare sia nelle menti più elevate e inclini alla contemplazione, che negli animi e nelle menti meno portate all’esercizio della ragione e del logos (Pseudo Longino, Sul sublime).

Quando tra le due tessere non c’è un forte legame ontologico di corrispondenza, ma più debole, come quello di somiglianza o omonimia, si ha l’allegoria. Il suo significato è: rimandare ad altro. A differenza del simbolo (che è univoco), dunque, quest’ultima può essere equivoca, e la somiglianza può risultare confusa, offuscata. Avvertito questo pericolo, lo stesso Platone e naturalmente i principali filosofi greci, avevano bensì riconosciuto un certo valore di verità allo stesso pensiero simbolico (e comunque un fascino in tutti i tipi di mente), ma preferirono ad esso la fatica del logos, del pensiero dotato di ragione, più efficace, se non nella comprensione, sicuramente nella comunicazione veritiera.

Nell’individuare coloro che attribuiscono al mito valore di verità, Platone si riferiva alle concezioni religiose misteriche dell’antichità. Soprattutto orfiche. Uno scritto che ci documenta questo legame è un papiro antichissimo, scoperto negli anni ’60, il più antico trovato in Grecia, risalente al 340-320 a.C., ma contenente un testo più antico (papiro di Derveni), che è il commento allegorico a un poema orfico, in cui si riconosce valore di segno (enigma) alla poesia. Vi si dice che il divino Orfeo comunica agli uomini tramite enigmi, non perché li voglia ingannare, bensì perché deve dire cose importanti, che i non iniziati non possano comprendere. Platone era più vicino alle concezioni pitagoriche, le quali privilegiavano, come forma di razionalità, quella matematica. Secondo scrittori antichi “Pitagora parlava per simboli”.

Il fatto di non escludere valore di verità al pensiero simbolico fa avvicinare tra loro queste tre correnti del pensiero antico (platonismo, orfismo, pitagorismo), tale tipo di pensiero infatti si basa su alcuni presupposti loro comuni, innanzitutto:

  • la concezione della filosofia come un’ascesa mistica, un viaggio verso la conoscenza della verità trascendente, attraverso un’etica di purificazione, che ha anche un ruolo salvifico (cioè guida verso la felicità, il bene),
  • un dualismo corpo-spirito fortemente sbilanciato a vantaggio di quest’ultimo, considerato migliore
  • l’univocità dell’essere (l’essere si può anche dire in molti sensi, ma esisterà un genere unico che tutti accomuna, ad es. l’idea dell’Uno, del Bene, di Dio). Se noi comprendiamo che il vero problema della filosofia antica (e della filosofia tout-court) è quello del rapporto uno-molteplice, vediamo che questo filone lo risolve in senso assolutizzante nei confronti dell’unità.
  • Esiste uno stretto legame tra essere-pensiero-linguaggio (questo, tra l’altro, fonderà la possibilità per la Parola di ricevere la rivelazione dell’essere, attraverso la mediazione del Logos). Il linguaggio non è convenzionale, ma il nome e la sua etimologia, sono strettamente legati all’essenza (da ciò, ad es. conseguirà che dai Nomi Divini si può risalire per accedere alla conoscenza della divinità – Dionigi l’areopagita)

Questi aspetti ci fanno capire che la nostra corrente di pensiero fu subito guardata con interesse e venne privilegiato da parte delle religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo), nei loro primi tentativi di presentarsi in forma filosofica.

Un rischio, per una visione univocista, era quello di accentuare a tal punto la continuità tra i due mondi, fino a risolverli totalmente l’uno nell’altro. E’ quello che avviene nell’antichità con il pensiero stoico, che pur mantenendo una forte carica etica e una forte tensione speculativa, è caratterizzato da un totale materialismo. A noi, comunque, interessa perché è forse al suo interno che nasce una consapevole filosofia del simbolo, quantunque fondata sull’immanenza e sulla sensazione.

Per gli stoici (Crisippo) i concetti, pur nascendo dalla sensazione (che ha valore di verità a livello individuale o particolare), hanno anche comune valore universale, perché il sapere dell’uomo è cumulativo e collettivo (ad es. i poeti greci gli apparvero come collettori e artefici di un sapere comune, in quanto veicoli di quel logos o principio attivo che tutto accomuna e compenetra, conferendo ordine e armonia al principio passivo, cioè la materia).

Per gli stoici l’etimologia dei nomi riporta all’origine dei concetti, tanto che Crisippo attribuiva alle etimologie valore di prova scientifica.

Gli stoici applicarono ai testi dei poeti antichi l’interpretazione di tipo allegorico (v. sopra). Chiaramente il loro monismo non avrebbe consentito l’interpretazione simbolica: il simbolo non avrebbe rimandato a nessun’altra realtà: l’universale è il concetto presente esclusivamente nella mente umana). Teorizzarono valore di verità dei miti, e i referti dell’allegoresi erano equiparabili alla scienza, in nome dell’unicità della verità, e data la equipollente validità dei due metodi.

Questa loro posizione va di pari passo con quella secondo cui più un autore è antico più è vicino alla fonte della verità, quasi che il logos fosse più puro all’inizio della storia umana, e che in seguito la visione della verità si fosse come offuscata. Perciò l’interpretazione doveva tener conto delle deformazioni subite nel tempo (da ciò l’equivocità dell’allegoria).

Essi individuarono vari tipi di esegesi: fisica (es. gli dèi sono forze naturali), etica (gli dèi sono forze morali), storica (un fatto storico realmente avvenuto fu all’origine del mito).

In ambito stoico era privilegiata l’interpretazione fisica degli dèi olimpici: tutte le divinità sono manifestazioni parziali di un’unica divinità, che è fuoco e logos, causa e principio attivo immanente di tutta la realtà. Il filone della filosofia simbolica non è molto praticato, per questo gli autori sono considerati minori, e così pure le loro opere. Tra queste ricordiamo quelli recentemente pubblicati da Bompiani nella raccolta Allegoristi dell’età classica, opere e frammenti, e il manuale di L.A.Cornuto, Compendio di teologia greca. Sappiamo inoltre dell’esistenza di Cheremone (tramandato da Porfirio) secondo il quale gli antichi sacerdoti egiziani erano filosofi, depositari di un’originaria sapienza, e che egli, con la sua interpretazione allegorica della loro teologia si proponeva di mostrare le verità filosofiche soggiacenti ai miti. D’altronde il suo contemporaneo, l’evangelista Luca, negli Atti degli Apostoli (7,22) riporta, per bocca del diacono Stefano, la tesi che Mosè fosse stato istruito nella sapienza dagli Egizi.

E con ciò arriviamo al personaggio che a noi interessa maggiormente, perché comprese, fece propria e applicò l’interpretazione allegorica, traghettandola dal mondo della cultura pagana a quella religiosa ebraica: Filone di Alessandria, dotto ebreo della diaspora, vissuto ad Alessandria d’Egitto a cavallo dell’era cristiana.

Filone, formato alla cultura greca, affascinato dalle potenzialità della filosofia simbolica in campo esegetico, la applica alla Torà ebraica (Pentateuco), interpretandone in questa chiave il testo, e di fatto avviando sistematicamente (sebbene, sembra, non per primo), la lettura allegorica, presto imitato dai dotti cristiani di Alessandria (Clemente e Origene), quindi dai Grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente (Gregorio di Nissa, Basilio, Girolamo, Ambrogio, Agostino …).

Il suo obiettivo era rintracciare nella Scrittura una verità di tipo filosofico, che infatti riuscirà a mettere a fuoco e che sarà chiamata “filosofia mosaica”, dato che il Pentateuco si riteneva tutto opera di Mosè. Aderendo però egli a una visione filosofica e religiosa dualista e non monista (come gli stoici), di fatto la sua interpretazione “allegorica” si potrebbe considerare piuttosto una interpretazione di tipo “simbolico”.

Se andiamo a considerare i contenuti della sua filosofia troveremo elementi tratti proprio da ambito platonico, pitagorico, orfico e stoico, e in particolare molti degli aspetti sopra elencati, mirabilmente rivisitati, sintetizzati e armonizzati con il contenuto biblico. Ad esempio utilizzerà le idee platoniche, ma in lui diventeranno i pensieri di Dio, o meglio i pensieri del logos divino, che prima di realizzare la creazione, ne produrrà il progetto archetipico ideale (il mondo intelleggibile): e questo corrisponderà all’attività di Dio nei primi sei giorni della creazione. Inoltre in ciò troviamo un avvicinamento dell’opera creatrice divina a quanto operato dal Demiurgo platonico nel mito verosimile del Timeo, con sostanziali adattamenti in senso veramente creazionistico, cioè ex nihilo.

Per quanto concerne lo stoicismo, lo svuota del materialismo, e rilegge in chiave trascendentalistica ad es. la figura del logos (anche il ruolo di mediatore attribuito da lui al logos fornirà strumento filosofico per una prossima concettualizzazione del ruolo di Gesù Cristo).

Dal pitagorismo sfrutta l’interpretazione simbolica dei numeri, dell’orfismo riprende la necessità di una iniziazione e purificazione.

Nell’interpretare l’espressione “facciamo l’uomo”, ravvisa la presenza di collaboratori divini alla creazione o intermediari, frapponendo tra Dio e la realtà creata una serie di potenze intermedie, di cui la prima è, come abbiamo visto, il logos, e le altre sono progressivamente digradanti, addirittura causa delle imperfezioni nel risultato finale. Questo discorso a noi interessa perché, le varie potenze sono tra di loro in rapporto “iconografico” ciascuna a immagine di quelle superiore (FILONE, L’erede delle cose divine, XLVIII, in Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, Rusconi 1994, p. 830), e, rispetto a questa, l’inferiore ne è un’impronta, che, a sua volta si trasmette, benché più sbiadita.

Sembra che non ci sia una trattazione sistematica sulla differenza tra simbolo e allegoria, ma Filone teorizza un contesto separazione, ma anche di sintonia e corrispondenza tra i due mondi, ad esempio quando (FILONE in op. cit. p.743) descrive i contenuti delle leggi “simboli esprimibili di realtà inesprimibili”, e “simboli visibili di realtà invisibili”.

Inoltre:

  • Filone elenca i vari tipi di esegesi, distinguendo quella letterale (che non disprezza, e che egli stesso dichiara di seguire nell’interpretazione dei primi sei giorni della creazione) da quella allegorica, paragonando l’insieme a un essere vivente, di cui il corpo è la lettera e l’anima lo spirito invisibile riposto nelle parole (in op. cit. pp. LIII- LIV).

Purtroppo però, quando si tratta di classificare i vari tipi di allegoria, Filone un po’ si perde: dapprima segue la bipartizione classica greca in due tipi:

  • fisica – etica

ma in essa vengono successivamente introdotte varie articolazioni, che gli studiosi di Filone cercano di capire.

In particolare mi sembra interessante quanto mette in luce J. Danielou, che distingue tre piani dell’allegoresi:

  • cosmologico (macrocosmo) – antropologico (microcosmo) – mistico (trascendente)

unificati da un presupposto di continuità tra i tre ambiti: il passaggio tra i vari piani avviene grazie alle corrispondenze sussistenti tra questi, e cioè proprio per il fatto che il mondo fisico è appunto simbolo di quello invisibile, e che l’uomo è un microcosmo in cui i due convergono, si unificano, proprio come le due tessere del symbolon.

Per concludere su Filone:

  • Dio è unico e si manifesta nelle sue molteplici potenze, che naturalmente si affievoliscono di mano in mano che si allontanano da Lui.

Ogni elemento è in sinergia reciproca con il tutto. L’essenza di Dio è trascendente, la sua potenza immanente. Dio, pur essendo invisibile ad ogni essere materiale, è tuttavia visibile nelle sue opere.

Secondo un interprete (Landner, citato da Byckov, L’estetica bizantina, Congedo editore 1983) Filone fu il primo ad avvicinare il concetto di immagine (eikon) all’idea platonica, contribuendo così a dare una impostazione nuova ai problemi del simbolo e dell’immagine, che verranno ripresi nel mondo cristiano.

Se pensiamo che l’indice valutativo di un’immagine è la bellezza, comprendiamo quanto questa sia importante nel farci ripercorrere la scala che ascende dal fisico al metafisico.

A sottolinearne il ruolo fu un altro grande, il più grande e ultimo filosofo platonico dell’antichità, Plotino (205-270). Il suo pensiero, altamente speculativo, rappresentò il vertice e la sistematizzazione della concezione mistica (nei rapporti uno-molteplice).

Per lui la virtù consiste nell’essere simili a Dio, somiglianza che si raggiunge con la fuga da questo mondo, tramite la purificazione, separando cioè l’anima dal corpo (l’anima è cattiva finché è mescolata al corpo).

Per lui la bellezza ha proprio lo scopo di elevare dal mondo sensibile al piano trascendente, sempre in virtù del rapporto di analogia partecipativa che lega i vari piani dell’essere.

Anzi, si sofferma ad analizzare i vari tipi di analogia, identificandola con la proporzione matematica, e tra i vari tipi di proporzione sceglie quella geometrica, in cui la somma degli estremi è uguale alla somma dei medi.

Nell’ambito del platonismo, la sua teoria della bellezza e il ruolo positivo dell’immagine lo distanzierà da Platone, per cui l’arte, essendo copia di copia, non può che allontanare dal mondo trascendente della realtà archetipica.

Anche le sue concezioni, rese concilianti con le verità della fede cristiana, ispireranno gli artisti e indicheranno la via da seguire, non solo nel primo millennio cristiano, ma saranno sue le “idee nuove” che faranno produrre le creazioni più sublimi dell’arte rinascimentale.

Un altro importante autore pagano, ma anello di congiunzione con la teologia cristiana è Proclo, neoplatonico post- plotiniano. Nella sua Teologia platonica sostiene che alla verità e a Dio non si giunge solo mediante la filosofia e il ragionamento, ma anche attraverso il mito, la bellezza e la fede, che sono in grado di guidarci verso un’unione mistica con l’Assoluto. In particolare pensa che questo avvenga attraverso la comprensione dei simboli divini contenuti nell’anima, dirigendosi così nella direzione dell’approfondimento della teologia simbolica.

Nella sua visione univocista, tutti gli enti procedono dall’Uno tramite somiglianza. Il tutto appare governato unitariamente, e organicamente collegato in ogni sua parte, tramite divinità intermedie che derivano da quelle superiori, caratterizzate da un sempre maggior grado di astrattezza e unità, come in una catena, in cui i singoli anelli dipendono da quelli che precedono e collegano quelli che seguono. Quanto scrive sui Nomi Divini (PROCLO, Teologia platonica, ed. Bompiani, p. 181) ci introduce a Dionigi Areopagita, autore cristiano cui abbiamo accennato all’inizio, e da cui riprenderemo la prossima volta.


2. Il pensiero cristiano.

Il Cristianesimo si confronta con le categorie filosofiche e con la cultura tardo- antica. E’ evidente la possibilità di collegamento con la filosofia platonica, per i seguenti aspetti generali:

  • dualismo tra i due mondi (visibile, invisibile, a vantaggio di quello invisibile perché più perfetto)
  • da un principio unitario trascendente ha avuto origine la realtà che si vede
  • necessità di un percorso di ascesi purificatoria per accedervi
  • necessità di una mediazione
  • gradualità dei passaggi sia discendenti che ascendenti.

Molti sono i contesti scritturistici che legittimano questo avvicinamento. Ad es. il prologo del vangelo di Giovanni, ma anche le prime riflessioni teoriche fornite dalle Lettere di S. Paolo e dalle Lettere cattoliche (“ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto discende dall’alto, dal Padre delle luci” Gc. 1,17, “tutto esiste da Lui e per Lui” Rm. 11,36; Gesù è luce del Padre, “che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” Gv. 1, 1-9), 2Cor. 3 (tutto, ma in particolare il v. 18: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore”).

Dalle prime riflessioni patristiche, sempre supportate dalla Scrittura, si evidenziano altri collegamenti,

  • Cristo è il nuovo Adamo, l’uomo archetipico, così come uscito dal pensiero di Dio: Logos del Padre (cfr. logos di Filone, nel primo incontro) 1Co. 15, 45-50, Rom. 5,12.
  • Nelle sue due nature si sono congiunti il mondo celeste e quello terrestre (cfr. symbolon, nel primo incontro),
  • L’incarnazione rende visibile il volto invisibile di Dio (“Cristo è immagine del Dio invisibile” Col. 1, 15)
  • e con la sua Incarnazione viene restituita al mondo la bellezza della creazione, secondo il progetto originario di Dio.
  • Se Dio è diventato uomo, l’uomo può diventare Dio, magari non per natura ma solamente per grazia (“è in Lui che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di Lui, che è il capo di ogni principato e di ogni potenza” Col. 2, 9-10; “vi siete svestiti dell’uomo vecchio con la sue azioni, e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di colui che lo ha creato” Col. 3, 9-10).

Tra i due mondi, il primato ontologico spetta a quello invisibile, se non altro perché “dall’invisibile ha preso origine ciò che si vede” Eb. 11, 3 e Gv. 6, 63: “lo spirito dà vita, la carne non giova a nulla”.

Dopo la conclusione della vicenda terrena di Cristo, con il ritorno di Gesù al Padre , la linea di confine tra i due mondi, data dalla visibilità, si ripresenta ad oscurarne il collegamento, c’è bisogno di un raccordo, di una saldatura, perché sia possibile continuare a trasmettere, anche dopo la conclusione della vicenda terrena di Cristo la conoscenza della verità e la grazia divina che concede la salvezza. Ecco il ruolo della Scrittura e della Chiesa.

Quanto alla verità, Dio la comunica all’uomo tramite la Rivelazione, la sua Parola, la Sacra Scrittura. Qui i contenuti di verità sono presenti in maniera così estremamente ricca e abbondante da richiedere la necessità di criteri interpretativi (sui quali, da subito ad oggi la Chiesa continua a vigilare). La Rivelazione infatti non ci svela la Verità nuda, ma “in aenigmate” (ICor. 13, 12), cioè attraverso segni, simboli, miti, linguaggi diversi che hanno bisogno di essere decodificati. Ecco dunque aperta la discussione ermeneutica, sul valore cioè da dare a questi segni.

I criteri per la lettura e l’interpretazione cristiana della Scrittura si trovano nella Scrittura stessa, lo stesso Gesù li spiega (ai discepoli di Emmaus Lc. 24, 25-27) e applica a se stesso i simboli dell’AT (vedi anche Giovanni 5, 46, 6, 30-33 e 58, 8, 25ss. e 58, 12, 31-36, 13, 19-20…), Gal. 4, 24. Riprendendo l’esegesi di Filone, che applicava alla Sacra scrittura l’interpretazione allegorica che gli antichi facevano sui testi classici, la scuola cristiana di Alessandria d’Egitto, in particolare con Origene, esplicita questi criteri, che saranno sostanzialmente seguiti dai padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. Si fondano sul seguente parallelismo (De Principiis, IV, 2, 4): “come l’uomo è formato da corpo, anima e spirito, lo stesso dobbiamo pensare delle scrittura”. Troveremo perciò:

  • un senso storico- letterale, corrispondente all’uomo in quanto carnale,
  • un senso morale-didascalico, corrispondente al livello dell’anima,
  • e infine un senso più profondo, spirituale, mistico, che ci porta a sollevare il velo della scrittura dato appunto dai simboli di cui essa si serve (II Cor. 3, 14).

Ecco l’importanza del possesso del linguaggio simbolico, dell’entrare in una mentalità simbolica: il contenuto visibile del simbolo rimanda a una realtà invisibile, precedente e più originaria, la verità invisibile, nascosta alla massa e svelata ai sapienti, che per il cristianesimo poi possono ben coincidere con i semplici.

Ma questa visione mistico-speculativa non sempre si accorda con gli stessi criteri ermeneutici forniti dalla Scrittura (la Scrittura supera ogni filosofia, e d’altronde ogni filosofia può offrire strumenti per una teologia biblica): i limiti sono stati evidenziati dalla scuola teologica di Antiochia, i quali preferivano al termine simbolo quello di tipo (Eb. 11, 19). L’approccio ermeneutico antiocheno è definito “escatologico”, perché la perfezione della realtà cui allude il simbolo, non si ha prima, ma dopo il simbolo stesso. Questo è aristotelismo perché secondo il finalismo aristotelico l’atto (= piena realizzazione della realtà) è successivo alla potenza (= possibilità non sviluppata).

Es:

  • Col. 2, 17: queste cose (descritte nell’AT) sono “ombra di quelle future, ma la realtà è Cristo”.
  • Eb. 10, 1: la Legge possiede soltanto un’ombra dei beni futuri, e non la realtà stessa delle cosa
  • Abele è tipo di Cristo, così Giuseppe, ecc. La manna del deserto prefigura (imperfettamente) l’Eucaristia (Crisostomo).
  • Fede = pedagogo (Gal. 3, 24).

Questi segni sono destinati a essere soppiantati dalla vera realtà, che perciò viene dopo di essi, e non prima. Non hanno un forte valore rivelativo proprio, ma si rendono comprensibili solo dopo che la loro pienezza si è realizzata.

Naturalmente il filone precedente non ignora tali frasi bibliche, ma le giustifica con un altro riferimento biblico: il valore simbolico del tempio, dei sacrifici e della legge antica, richiamati dalla Lettera agli Ebrei, stavano nel fatto che Mosè, che tal legge aveva data, aveva visto sul Sinai il loro archetipo eterno. Se la loro realizzazione è Cristo, nei vari aspetti della sua opera redentrice, ebbene Mosè doveva avere visto il Cristo stesso (Es. 25, 8-40, anche At.7, 44, e Vita di Mosè di Gregorio di Nissa). Anche per questo Mosè diventa il più importante dei profeti: egli, sul Monte, aveva conosciuto Tutto, ma non lo poteva comunicare, tanto meno poteva dare Lui la salvezza: ha però scritto la Torà, in cui, in prefigurazione, c’è tutto.

Noi approfondiamo la visione “platonica” perché sarà poi quella privilegiata dalla teologia dell’icona di s. Giovanni Damasceno e quindi anche dal Concilio Niceno II (che però non ignorano né escludono totalmente l’approccio aristotelico-antiocheno).

Nel cammino verso l’esplicitazione della teologia dell’icona cristiana, una tappa importante sono gli scritti di Dionigi Areopagita.

Egli parte da alcuni presupposti scritturistici che orientano in senso platonico ( “dalla creazione del mondo in poi le perfezioni invisibili di Dio (bontà, bellezza) possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute” Rm. 1, 20, e ricostruisce la gerarchia che da “Padre delle luci”(Gc. 1, 17) giunge alla più infima delle creature, secondo un rapporto di immagine-impronta. Grazie alla partecipazione , tutto il creato può darci qualche informazione sul mondo celeste perché “le cose visibili sono immagini che manifestano le cose invisibili”(DIONIGI, Tutte le opere, Ep. X, Rusconi 1981 p. 460).

Il simbolo evidenzia il legame di parentela tra le cose visibili e quelle invisibili, partecipando alle stesse caratteristiche ontologiche della realtà invisibile e trascendente cui esso rimanda. Afferma Dionigi: “la stessa macchina del mondo sensibile è come un velo gettato sulle proprietà invisibili di Dio” (Id., Ep. IX, p.454). E qui vediamo la metafora del velo, applicata da s. Paolo nella Scrittura (2Cor. 3,14ss), ampliata fino a comprendere tutta la realtà sensibile.

Afferma ancora Dionigi: “alla nostra intelligenza non è dato innalzarsi sino alla contemplazione immateriale delle gerarchie celesti, se non mediante la guida materiale che le è propria, supponendo le bellezze visibili come raffigurazione di quelle invisibili, le fragranze sensibili come impronte delle diffusioni spirituali, le lampade materiali come immagine della luce spirituale, le ampie dottrine sacre come pienezza della contemplazione spirituale, i gradi degli ornamenti terreni come accenni all’armonia e all’ordine divino … in breve, tutto quanto concerne le essenze celesti è, in maniera super-degna, trasmesso nei simboli (CH I, 3, 121c – 124a, p.79).

ma con questa distinzione:

  • simboli simili – simboli dissimili.

I primi vengono utilizzati per evidenziare caratteristiche comuni, es. il fuoco, con la divinità (luce, calore, vita, ecc), ma siccome, nella scala gerarchica il fuoco è molto lontano rispetto a Dio, la parentela è affievolita, risulta poco efficace. Per essere efficace l’analogia dovrebbe essere in negativo: Dio non è luce, calore,vita, ecc., nel senso che non c’è confronto tra queste immagini simili e il loro corrispondente nella realtà divina (linguaggio apofatico).

Ecco che subentrano i secondi: se è abbastanza appropriato dire che Dio è luce, ed è molto più appropriato il negarlo, potremo parlare di Tenebra divina, o, come nella Trasfigurazione, di nube oscura. (v. anche “verme”). Questo tipo di linguaggio (apofatico), proprio dei simboli dissimili, è più adatto a introdurci nel mistero di Dio.

È comunque la Scrittura stessa che usa il simbolismo delle realtà naturali. Ad esempio, commentando la visione di Ezechiele, afferma: “Se poi la Sacra Scrittura applica alle sostanze celesti la forma dell’elettro, delle pietre dai molti colori, è perché l’elettro, in quanto avente la forma dell’oro e dell’argento, designa lo splendore incorruttibile, inconsumabile, indiminuibile, immacolato, come avviene nell’oro, e la chiarezza lucente e brillante e celeste come è nell’argento … invece gli aspetti dei diversi colori delle pietre bisogna credere che significhino: quelle bianche lo splendore della luce, quelle rosse il fuoco, quelle gialle l’oro, quelle verdi la giovinezza e la forza” (CH XV, 7, 336c p.132).

Lo svelamento del simbolo a volte non è immediato: occorre una speciale illuminazione che svolge il ruolo di sollevare il velo: la realtà contemplata non può più, però, poi essere negata, non solo, ma il contenuto svelato è altrimenti inesplicabile. Afferma sempre Dionigi: “Se qualcuno potesse vedere le armonie nascoste nell’interno delle cose, troverebbe che tutto è mistico e divino, e riempito di molta luce divina” (Ep. IX, p. 542)*.

Il tentativo di esplicitare queste armonie nascoste è, per esempio, quello che si fa nella nostra pittura iconografica quando si cerca la struttura geometrica, cercando di ricondurla alla sobrietà essenziale dei segni e delle linee: essenziali, ma dal concentrato senso simbolico (verticale-orizzontale, cerchio, centro, rapporti che poi restano invisibili, ecc.). La controprova si può avere confrontando una composizione che ne tiene conto con una che non ne tiene, ad es. nel volto di Cristo.

Lo stesso materiale usato, attinto direttamente e senza sofisticazioni dal mondo della natura, ne esplicita in pieno le potenzialità rivelative: è resa cioè trasparente l’oggettività simbolica della natura, è evidenziato il legame ontologico di parentela tra le cose visibili e quelle invisibili.

Il linguaggio simbolico dell’immagine supera la forza di quello discorsivo, e ci introduce anche, misticamente, nell’intuizione di verità logicamente contraddittorie (es. il mistero trinitario con la Trinità di Rublev).

Non solo, ma coinvolgendo, grazie allo splendore della bellezza, che è il criterio valutativo dell’immagine, oltre l’ambito intellettivo, anche quello emotivo-psichico e quello sensibile, si può dire che è in grado di adempiere una funzione anagogica, cioè avviare il cosiddetto cammino di ritorno all’Uno, dal piano visibile rende possibile risalire a quello invisibile, da un’esperienza sensibile a una spirituale, attraverso i sensi purificati: è resa possibile l’ “esperienza di Dio”. Si tratta di una esperienza mistica, unitiva, che lascia come conseguenza nell’uomo (a mo’ di fuoco che rende incandescente il metallo e lo purifica) la possibilità di essere investito di grazia divina e quindi di salvezza. Mentre la storicità dell’Incarnazione rende possibile la salvezza in generale, per tutti gli uomini, la via mistico-esperienziale dentro la Chiesa rende reale la salvezza per ogni singolo individuo.

  1. Giovanni Damasceno, in La difesa delle immagini sacre fa propri i presupposti di questa visione filosofica, ed è anche facile capire perché. Essa è più “forte”, dà maggiore certezza teorico- pratica e sostegno. Dopo aver precisato i motivi per cui è possibile fare immagini, infrangendo il divieto veterotestamentario dice: “io non raffiguro la divinità invisibile, ma la carne di Dio che è stata vista”. Egli evidenzia la necessità, nell’interpretazione delle Scritture, di “ricercare lo spirito che è ricoperto sotto la lettera” (p.34), elenca e presenta i vari tipi di immagini, come segue:
  • precisa che “l’immagine è una copia che riproduce un modello originale, avendo contemporaneamente anche qualche differenza. … E così l’immagine del Dio invisibile è il Figlio, che reca in sé interamente il Padre, avendo in tutto identità con lui, e differendo soltanto per l’essere causato”
  • in Dio vi sono anche immagini e modelli archetipici (forme) di cose che sono destinate a essere, dette “predeterminazioni” dal santo Dionigi
  • vi sono anche immagini delle cose invisibili, cui giungiamo tramite purificazione di immagini sensibili, dato che “dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle cose da lui compiute”
  • vi sono poi le immagini destinate a scomparire dopo che è apparsa la verità da loro prefigurata (es. l’arca = Maria, il serpente = Cristo, ecc.) (impostazione aristotelizzante)
  • infine immagini-ricordo di ciò che è passato, e possono essere sia scritte che visibili

Già da questo elenco possiamo capire:

  • che c’è un ordine di importanza tra i vari tipi di immagini a seconda della maggiore identità e minore differenza rispetto alla fonte
  • che viene privilegiata la visione platonica, secondo cui l’immagine è anche il criterio dell’ordine (nel rapporto gerarchico i gradi sono tra di loro in rapporto di eikon)
  • che anche nelle immagini dipinte c’è traccia della realtà rappresentata, per il motivo della presenza dell’identico, oltre a quella del diverso .

Parla poi della venerazione: nell’immagine (“l’onore dell’immagine passa al prototipo” Basilio) non si venera certo la materia, ma la materia non è spregevole, come ritenevano gli gnostici e i manichei, ma santificata, riportata alla bontà iniziale, a causa dell’Incarnazione.

Continua poi con la funzione delle immagini in ordine alla salvezza: grazie alla partecipazione delle divinità nel Cristo, non solo il cosmo manifesta la gloria di Dio, ma , per suo mezzo, “la natura, dall’infimo della terra si è innalzata al di sopra di ogni principio e si è assisa sul trono stesso di Dio”.

Possiamo fare immagini di santi come di coloro che, per partecipazione al fuoco, suono diventati fuoco (non per natura ma per unione), sono diventati simili a lui, sono divinizzati, hanno seguito l’esempio di Cristo, ne hanno seguito le orme, e possiamo noi stessi imitarli.

Segue un elenco di luoghi scritturistici e patristici, presentati e commentati, che confermano la legittimità del culto delle immagini (qualche es. p. 70-71 ed. Città Nuova) tratte anche dal filone “aristotelico” (75 e 83), come pure da prassi devozionali, o perché sono temute dai demoni (84-85).

Per concludere:

  • le argomentazioni di San Giovanni Damasceno saranno sostanzialmente riprese dal Concilio Niceno II,
  • troveranno una certa resistenza in Occidente, all’epoca di Carlo Magno, per divergenze nella comprensione e interpretazione dei termini greci usati nelle formule dogmatiche, dando origine a un’arte sacra non ancorata questo tipo di impostazione teorica
  • diventeranno patrimonio comune delle Chiesa d’Oriente (anche tuttora) e, ad es., ispireranno il movimento esicasta, che, con Gregorio Palamas rinnoverà l’afflato mistico e spirituale della Chiesa cristiana d’Oriente (in polemica con quella d’Occidente, nel XIV secolo).
  • In Occidente la validità della comune impostazione teorica è stata riconosciuta dalla lettera di Giovanni Paolo II “Duodecimum saeculum”, in occasione dell’anniversario del Niceno II (1987).

Errata corrige

* p. 452 (non 542). Il passo citato è riferito alla Sacra Scrittura, ma è estensibile alla “macchina del mondo sensibile”, come dal sopra citato passo (id. Ep. IX, p. 454. Vedasi anche il sopra citato passo da Ep. X, id. p. 460).

 

 

Duodecimum Saeculum

LETTERA APOSTOLICA
DUODECIMUM SAECULUM

DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO PP. II

ALL’EPISCOPATO DELLA CHIESA CATTOLICA
PER IL XII CENTENARIO
DEL II CONCILIO DI NICEA

Venerabili fratelli, salute e benedizione apostolica!

1. Il dodicesimo centenario del II Concilio di Nicea (787) è stato l’oggetto di molte commemorazioni ecclesiali ed accademiche. La stessa Santa Sede vi si è associata (cf. “L’Osservatore Romano”, 12–13 ottobre 1987). L’avvenimento è stato parimenti celebrato con la pubblicazione di un’Enciclica di Sua Santità il Patriarca di Costantinopoli e del Santo Sinodo, iniziativa che sottolinea quanto siano ancora attuali l’importanza teologica e la portata ecumenica del settimo ed ultimo Concilio pienamente riconosciuto dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa. Continua a leggere

L’attualità del messaggio di Pavel Florenskij

Il convegno si è tenuto a Padova il 13 aprile 2002 presso la Sala del Presbyterium ed è stato curato dal Centro Vladimir Solov’ëv in collavorazione con il Centro Dehoniano “Presbyterium” di Padova.

Pavel Vaslievič Florenskij

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Il prof. Fellin (a destra), Presidente del Centro Solov'ev, a sinistra p. Pietro Fochesato del Centro P.Dehon

“Non dimenticatemi” è il titolo della traduzione italiana della raccolta di lettere che Pavel Vaslievič Florenskij scrisse ai familiari dal lager staliniano delle isole Solovki in cui venne ucciso. Ritorno al nome dimenticato è il titolo assegnato dalla Fondazione Sovietica della Cultura nel 1989 alla prima mostra dedicata a questa gigantesca figura di intellettuale russo. Il suo nome e la sua opera erano destinati all’oblio per suprema decisione della barbarie e del terrore instaurati da Stalin, ma come la roccia non riesce mai a soffocare completamente la tenacità dell’umile raponzolo che improvvisamente prorompe dalle sue crepe e dona all’alpinista la magnificenza della sua bellezza così l’opera di Pavel Florenskij non poteva che riaffiorare e arricchire il consorzio umano e ciò prima ancora che si sfaldasse definitivamente quell’impero del male che ne aveva condannato l’autore.

È perciò con una certa emozione che oggi noi pensiamo di aggiungere il nostro piccolo contributo alla conoscenza della figura e dell’opera di padre Pavel con questo breve simposio, forse sarebbe più giusto chiamarlo seminario, che è stato voluto fortemente sia dal centro culturale padre Dehon, come ha ricordato adesso padre Pietro, sia dal centro ecumenico Vladimir Solov’ëv ed è perciò a nome degli amici del centro Solov ’ëv, che io qui rappresento, che porgo il cordiale benvenuto a tutti i partecipanti, che desidero finora ringraziare quanti hanno vuoto contribuire all’organizzazione del convegno oppure anche offrirci il loro sostegno morale e talvolta anche finanziario. In particolare ringrazio i padri dehoniani per la fraterna ospitalità che sempre ci danno, ringrazio …

La mia riconoscenza va poi soprattutto ai relatori che certamente sapranno Illuminarci e spero anche contagiarci nell’entusiasmante percorso della scoperta della personalità complessa ma affascinante di Pavel Florenskij.

Questo convegno segna anche la seconda tappa di un cammino. Un cammino che abbiamo iniziato lo scorso anno con il simposio sulla figura e l’opera di Vladimir Sergej Solov’ëv, un cammino diretto a scoprire e a riversare in occidente l’immensa ricchezza di pensiero di un manipolo di russi vissuti tra la fine del XX secolo e la prima metà del XI accanto a Vladimir Solov ’ëv oggi poniamo Pavel Florenskij; ma stiamo già pensando domani per esempio a Sergej Bulgakov, forse a Dostoevskij … forse a qualcun altro.

Uomini eccezionali, uomini problematici e anche emblematici, di frontiera, uomini che molto possono dire alla nostra cultura occidentale forse ancor troppo ancorata a schemi razionali e positivisti e poco aperta al simbolismo, all’idea della sofia, alla dimensione del mistero e della bellezza, alla filosofia trinitaria. Uomini poco capiti e talora contrastati in patria, russi sì ma non riconducibili entro schemi solo slavofili, perché capaci di parlare un linguaggio universale e di porsi in dialogo con la nostra cultura occidentale. Ci siamo però resi conto che il dialogo con l’occidente di questi giganti del pensiero rischia spesso di restare confinato entro pochi circoli intellettuali elitari. I loro nomi, le loro opere sono infatti poco conosciute e ciò non solo tra la massa ma anche tra gli stessi credenti che vivono con impegno la propria fede.

Eppure la loro statura è grande anche nel cammino ecumenico di cui si possono spesso considerare degli autentici antesignani.

S.Bulgakov (a destra) con P.Florenskij (olio su tela di V.A.Nesterov 1917)

S.Bulgakov a destra e P.Florenskij a sinistra (olio su tela di V.A.Nesterov 1917)

Ci siamo perciò fatto carico di divulgare il loro pensiero e siamo grati ai presenti per aver accolto questo invito consentendoci di aggiungere il nome di Padova anche a quello di Bergamo, di Bologna, di Milano, di Roma e di poche altre città che ci hanno preceduto in iniziative analoghe.

Certo una figura eclettica e gigantesca come quella di Pavel Florenskij può essere solo sfiorata in un seminario di poche ore. Per questo abbiamo scelto volutamente la strada di approfondire solo alcune tematiche, lasciandone in ombra altre e ciò per evitare la tentazione di un’esaustività che sarebbe stata solo apparente, perché avrebbe presto rivelato tutta la sua incapacità di lavorare in profondità, di trasmettere pochi messaggi ma di grande spessore.

Qualcuno ci ha anche cordialmente rimproverato, ad esempio, di aver trascurato in questo seminario la figura di Florenskij scienziato, la figura di Florenskij ingegnere proprio nell’ottica che ho ricordato poco fa, noi abbiamo privilegiato innanzitutto la conoscenza dell’uomo Florenskij ….

…..

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Considerando la necessità di una scelta, certo opinabile, rispetto all’ambiziosa idea di presentare tutto Florenskij, tuttavia in linea con il metodo che lo stesso Florenskij ci suggerisce in una delle sue ultime lettere dal Lager di Solovki, quella al figlio Kirill, quella del 21 febbraio 1937 laddove si chiede:

“Che cosa ho fatto io per tutta la vita?” e così si risponde:” Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma in ogni istante o, più precisamente, in ogni fase della mia vita, da un determinato angolo di osservazione. Ho esaminato i rapporti universali in un certo spaccato del mondo, seguendo una determinata direzione, in un determinato piano, e ho cercato di comprendere la struttura del mondo a partire da quella sua caratteristica, di cui mi occupavo in quella fase. I piani di questo spaccato mutano, tuttavia un piano non annulla l’altro, ma lo arricchiva, cambiando: ossia con una continua dialettica del pensiero (il cambio dei piani in esame, con la costante dell’orientamento verso il mondo come un insieme)”.

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P.Lorenzo Altissimo, centro V. Solov'ev

Chi è Pavel Florenskij? Pavel Aleksandrovič Florenskij era figlio di un ingegnere delle ferrovie. Nacque il 9 gennaio 1882 in una famiglia mista russo-armena a Evlach nell’Azerbaigian, nel Caucaso.

Dopo aver studiato matematica e filosofia all’Università di Mosca, a 22 anni si laureò in matematica nel 1904. Rifiutò una borsa di studio all’università per il dottorato in matematica e il 4 settembre dello stesso anno venne accolto, senza esame d’ammissione, perché era già molto bravo, all’Accademia ecclesiastica che si trovava allora, come anche oggi, a Sergiev Posad villaggio presso il Monastero della Trinità e di S. Sergio, a circa 70 Km da Mosca. Da allora fino all’arresto avvenuto nel 1933 risiedette in questa località anche quando era costretto a lavorare a Mosca.

L’intelligenza eccezionale e la straordinaria versatilità gli assicurarono nel 1907, ancor prima di aver conseguito la licenza in teologia 1908, la cattedra di professore di storia e della filosofia.

Florenskij manterrà questo insegnamento fino alla soppressione dell’accademia 1917.

Nel 1010 si sposò con Anna Michajlovna Giacintova, che è morta nel 1973 ed ebbe cinque figli.

Il 23 aprile 1911 venne ordinato diacono e il giorno seguente sacerdote. Nel 1012 fu nominato direttore responsabile della rivista mensile dell’Accademia “Bogoslovkij Vestnik” Messaggero Teologico, in cui fino al 1937 pubblicò veri e interessantissimi saggi filosofici, teologici e matematici miranti ad una riconciliazione tra religione e scienza, tra fede e ragione, tra ortodossia e cultura.

Nel 1914 ottenne il dottorato in teologia presentando come dissertazione la sua Tesi di Laurea: “O duchovnoj Istine”, La verità spirituale nel 1912, sviluppata e approfondita, che venne pubblicata poi con il titolo: La colonna e il fondamento della verità, “Stolp i utverždenie Istiny” pubblicato nel 1914.

Durante la rivoluzione bolscevica, poiché l’Accademia di teologia venne chiusa lavorò all’Istituto di Fisica a Mosca; quindi fu deportato in un campo di concentramento nel Turkestan. Poiché era un matematico geniale e un inventore, nel 1927 infatti, inventò un olio lubrificante per macchine non coagulante, antigelo chiamato dai bolscevichi dekanite in onore del decimo anniversario della rivoluzione sovietica. Venne liberato e nominato membro del Comitato per l’edificazione della Russia sovietica Glavelektro.

Negli anni della Nep 1921-1927, cioè una nuova politica economica. Insegnò all’Istituto di Studi superiori statali Tecnico-Artistici e qui la sua attività fu molto intensa. Si dedicò alle sperimentazioni didattiche, insegnò teoria della prospettiva a Mosca, lavorò quale ingegnere nella fabbrica Karbolit, si occupò della teoria della relatività e dei quanti.

Nel 1827 iniziò a collaborare alla redazione dell’Enciclopedia tecnica ma nel 1921 dovette interrompere questa e anche tutte le altre attività.

Il suo ultimo articolo su “Fisica al servizio della Matematica” comparve nel 1932 e praticamente fu l’ultimo articolo che egli scrisse.

Rifiutò sempre di rinunciare alla sua fede e al suo sacerdozio. Anzi insistette a portare la sua croce pettorale di sacerdote e di indossare la talare nelle funzioni ufficiali; anche agli incontri accademici e scientifici si presentava sempre in abito talare. Alla fine era inevitabile che fosse colpito dalle purghe staliniste, naturalmente accusato di attività controrivoluzionaria.

Arrestato nel 1933 fu nuovamente deportato prima a Solovki, un’isola del mare del Nord, e poi in Siberia. L’8 dicembre del 1937 in un luogo rimasto sconosciuto, presso Leningrado, all’età di 55 anni venne fucilato. La notizia della sua morte si ebbe soltanto nel 1939.

La chiesa ortodossa si appresta a canonizzarlo tra i martiri del XX secolo.

Nel 1956, dopo la morte di Stalin ebbe una riabilitazione postuma per cui alcuni dei suoi scritti vennero pubblicati non soltanto all’estero ma anche nell’Unione Sovietica sia nelle riviste statali sia nelle pubblicazioni del Patriarcato di Mosca.

Florenskij fu un uomo eccezionale, oltre che scrittore fecondissimo e originale.

Ecco come lo descrive Nikolaj Lossky : poeta simbolista, astronomo di talento, sostenitore di una concezione deocentrica del mondo, matematico eminente, autore di Finzioni nella geometria, e di una serie di studi matematici, fisico autore della Teoria dei dielettrici, un libro che fa ancora autorità, come diceva Lossky, critico d’arte, autore di numerose monografie e soprattutto di un opera sulla scultura in legno, di queste opere noi conosciamo molto poco, notevole ingegnere elettrico che occupò uno dei posti più importanti nella Commissione per l’elettrificazione, professore di pittura in prospettiva alla scuola di Belle Arti di Mosca, musicista dotato, fine conoscitore e ammiratore di Johann Sebastian Bach e della musica polifonica, di Beethoven e dei contemporanei, poliglotta conosceva a perfezione il greco e il latino e la maggior parte delle lingue europee come pure gli idiomi del Caucaso, dell’Iran e dell’India.

E’ stato per questo, più volte, paragonato a Leonardo da Vinci o a Blaise Pascal per la sua intelligenza straordinaria di grandissimo studioso in grado di unire le più alte speculazioni metafisiche quali la matematica e l’ingegneria, la storia dell’arte e la letteratura.

Vediamo un po’ le opere di Florenskij.

Come ho già detto Florenskij fu uno scrittore fecondissimo e originalissimo quindi non è possibile neppure elencare tutte le sue opere. Ne cito alcune tra le più principali, alcune delle quali sono state tradotte anche in italiano e che potete trovare nel banchetto laggiù in fondo:

I simboli dell’infinito oppure I tipi di crescita , questo libro interessante perché è uno studio antropologico dove Florenskij descrive sotto forma di circolo, sentite la matematica e la geometria, la possibilità soggettive in cui si scrive il destino di ogni uomo.

Tra le opere scientifiche che toccano anche l’epistemologia, la gnoseologia vanno ricordate: La descrizione simbolica del 1922, Il numero come forma; Lo spazio, la massa e il medio.

Molto ancora interessanti, e queste le cito solo perché sono solo in russo Il limite della gnoseologia, Smysl idealizma: Il significato dell’idealismo; anche questo è interessante sono Le antinomie cosmologiche di Emanuel Kant ; Superstizione e miracolo.

In questo articolo l’autore, …

In italiano sono state tradotte ancora alcune opere che vi accenno.

Una interessantissima è proprio un saggio sull’icona Ikonostas che è stata tradotta da Adelphi nel 1977 con “Le porte regali” .questo saggio è la prima traduzione mondiale di un testo di Pavel Florenskij.

Per Florenskij l’icona presuppone una metafisica dell’immagine e della luce e un nesso strettissimo con la liturgia della Chiesa Orientale. Solo con queste precomprensioni, incompatibili con la concezione della pittura dominante in Occidente dal Rinascimento in poi, si possono varcare le porte regali dell’iconostasi, che è il confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile, luogo dove si manifesta una pittura sublime, quasi mistica in cui le cose, sono prodotti della luce.

Ma l’opera che lo ha reso famoso rimane … “La colonna e il fondamento della verità”

Come ho già detto questa tesi era già apparsa nel 1912 con il titolo “O duchovnoj Istine”, La verità spirituale. Il titolo è chiaramente ispirato a S. Paolo 1 Tim 3,15.

L’opera ebbe grandissimo successo e convertì alla fede ortodossa nel 1918 il filosofo Nikolaj Lossky. Ben presto divenne introvabile. Nel 1929 a Berlino un gruppo di amici di Florenskij ne curò una edizione fototipica in un numero limitatissimo di copie e non commerciabili. In italiano è stata tradotta da Pietro Modesto per la Rusconi editore eseguita sulla edizione berlinese ed è stata tradotta nel 1974.

L’opera è scritta sotto forma di dodici lettere indirizzate a un amico, di una erudizione impressionante. Le sole note occupano 200 pagine alla fine dell’opera. Questo libro sintetizza la tradizione patristica, la scienza più avanzata, le dottrine esoteriche di tutte le epoche. Il libro è dedicato al nome tutto puro e profumato della Vergine e Madre.

Tutta la sofiologia di Florenskij di cui sentiremo parlare in una relazione successiva.

Baris Jacovenko, proprio descrivendo questo libro, diceva che si trattava di una specie di confessione speculativa religiosa degna di essere messa accanto alle confessioni di S. Agostino. Tra le altre opere di Pavel Florenskij tradotte in italiano, le potete trovare anche nei libri esposti, ci sono: La prospettiva rovesciata e altri scritti pubblicata da Cangemi di Roma 1983, Lo spazio e il tempo nell’arte 1995; La qualità della parola, La lingua tra scienza e mito. Questo è un testo formidabile perché fa vedere come la parola non sia solo un mezzo di espressione e di comunicazione ma sia un dono che uno riceve, proprio uno nasce con la parola, poi è il carisma praticamente. Uno nasce con una parola, cioè con un dono che è personale. E’ un dono che deve fare agli altri col dono della parola. Poi il valore magico della parola.

Insiste sulla parola Florenskij sul modo di comunicare, che non solo è un modo di rapportarsi ma è una conoscenza vitale. Insiste molto su questo termine.

Il sole della terra, vita dello Starec Isidoro, di cui ho già accennato poi Cuore cherubico, scritti teologici e mistici, anche questi sono molto belli, e poi il testo che stato citato già Non dimenticatemi, pubblicato di recente da Mondadori nel 2000, una raccolta di lettere che Florenskij inviò dal lager ai familiari, alla madre, alla moglie ai 5 figli.

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Archim. dr. Serghij Gajek (Minsk - Lubin - Roma)

Il testo che voglio presentare alla vostra attenzione è addirittura un elaborato comune con il dr. Alexandr Dobroier, è un riassunto elaborato dopo un tipo di incontri a Mosca, ad Odessa e a Minsk, nell’arco di un anno praticamente i problemi sono stati discussi nel contesto interconfessionale dei cattolici e degli ortodossi.

Devo chiedere una scusa perché l’italiano non sarà troppo buono, talvolta un po’ limitato, specialmente in questi brani che sono stati tradotti da noi dal russo in italiano, non avevamo sotto mano le traduzioni già fatte, esistenti. Per la pubblicazione evidentemente prenderemo quelli ma per il momento il linguaggio non semplice di Florenskij o di qualche suo commentatore sarà forse in un italiano non molto bello, però credo che quello che volevamo portare alla vostra attenzione sarà più o meno comprensibile.

Abbiamo deciso di dare il titolo a questo piccolo intervento “ Il senso della cultura in Pavel Florenskij” nel retaggio letterario di padre Pavel Florenskij.

Come è gia stato detto da padre Lorenzo Altissimo, il patrimonio letterario di Pavel Florenskij è molto ampio e multidimensionale: quello però che nelle sue opere è forse il è più prezioso è lo sforzo continuo di capire i problemi eterni dell’esistenza umana.

Nelle sue ricerche filosofiche e teologiche egli arriva alla riflessione, anzi una meditazione sui concetti stessi del vero, del bene e del bello. Cioè, in fin dei conti, a riscoprire l’essenza e il senso della cultura. Alle questioni di cultura, cioè alla culturologia Pavel Florenskij dedicò, tra l’altro, le opere seguenti: Ragione e dialettica del 1914, Culto religione e cultura -1918, Culto e filosofia – 1918, Filosofia del culto -1922, Ikonostas , Iconostasi, del quale ci ha parlato padre Altissimo e poi anche un articolo specifico Cristianesimo e cultura – 1924

Per poter capire perché padre Pavel Florenskij si è dedicato ad elaborare un insegnamento, proprio una dottrina della cultura, si deve ricordare che egli ha intrapreso la sua opera nel contesto delle idee comuni, delle idee bollenti, si potrebbe dire dell’intelligecija russa del primo ‘900, cioè del gruppo degli intellettualisti. Infatti le questioni riguardanti: la natura e la cultura, l’uomo e la tecnica la ragione ed il culto, la cultura, erano molto attuali per gli intellettuali dell’epoca ed erano discusse sulle pagine dei giornali per molti anni, prima della rivoluzione, ovviamente.

Queste questioni, questi temi erano importanti anche per Pavel Florenskij il quale partecipava in queste discussioni. Da una parte nella cultura russa si temeva una certa estetizzazione dell’esperienza religiosa, cioè di vedere l’esperienza religiosa come un’estetica solo a sfavore dell’ascetismo cristiano.

Fra gli altri fu un altro teologo russo padre Florowskij che prese proprio questo atteggiamento critico accennando gli argomenti sui libri di Florenskij “Stolp i utverždenie Istiny” ( Colonne e fondamento della verità) : una citazione “C’era tanta torbidezza qui in tutto, nella stessa esperienza religiosa, nelle idee doppie e sentimenti ambigui, nella seduzione erotica ed estetica e la teologia russa sperimentava una tentazione estetica come prima sperimentava quella moralista”; ed il libro di Florenskij era uno dei sintomi più chiari di questa tentazione.

Sono le parole veramente molto forti, sembra non molto giuste però dimostrano un atteggiamento di questo tipo critico riguardo a Florenskij stesso. Però d’altra parte c’erano le persone come per esempio Evgenij Trubeckoj che ritenevano che la citazione:

“L’ideale cristiano non si esprime nell’affermazione unilaterale, persino monofisita del principio divino. L’uomo sulla terra è chiamato ad essere collaboratore nella costruzione della casa di Dio e da questo scopo deve servire tutta la cultura umana, la scienza e l’arte, addirittura l’attività sociale”.

Un cenno caratteristico della culturologia di Pavel Florenskij è il suo modo di intendere, di capire la relazione tra la natura e la cultura. Infatti di solito la cultura viene intesa come qualcosa secondaria aggiunta alla natura. Florenskij invece cerca di dare uno sguardo su esse come se fossero una realtà unica, senza contrapporre una all’altra.

Nell’opera Homo faber egli scrive: “Se Dio è centro e fonte di cultura è per così dire archetipo della cultura come persona razionale, se egli è Dio della storia, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe allora perché la natura, vale a dire l’opera, la sua creatura è priva delle tracce di cultura?”

E rispondendo a questa domanda Florenskij afferma che la cultura e la natura si compenetrano e mai esistono una senza l’altra. Da una parte sono profondamente collegate dall’altra parte non si riducono l’una all’altra.

Florenskij scrive: “L’uomo portatore della cultura non crea nulla solo forma e trasforma gli elementi, d’altronde la natura non ci si presenta senza una forma culturale, senza la quale non fosse possibile conoscerla. E’ come il cibo che deve essere digerito e trasformato prima di diventare parte del nostro corpo”.

La sua concezione, il concetto sui generis , possiamo dire, della dialettica dell’unità e della diversità della cultura e della natura si fonda sulla dottrina delle antinomie; una dottrina specifica di Florenskij.

L’ideologismo.

Secondo Florenskij questo concetto si caratterizza con la parzialità della conoscenza. Proprio per la scienza dell’800, dell’ illuminismo quindi con la perdita della prospettiva totale, integrale della realtà. Questa condotta dell’unilateralismo è estremismo nella conoscenza scientifica, nella scienza anche, che divide il mondo ricco e composto in singoli elementi e lo atomizza. Florenskij pone una domanda interessante: “Sono molti per i quali la natura non è divisa solo in elementi autonomi e slegati fra di essi? Terra, bosco, campo, fiume, ecc. Sono molti quelli che dietro agli alberi vedono il bosco? “

Secondo padre Pavel Florenskij è proprio a causa di questo atomismo disgregante dell’anima che la vita umana perde i suoi principi, la bellezza, il bene, l’utile.

Questa è una brevissima caratteristica dell’ideologismo.

L’economismo

L’economismo secondo Florenskij è una dottrina sorta nella metà dell’800, sotto influsso del sviluppo rapido della tecnica accompagnato con la degradazione e devalutazione della persona umana a favore delle masse e dei bisogni economici delle masse. Questo concetto della cultura implica il fatto che l’uomo non è capace di sovrastare ai frutti del suo lavoro.

Secondo il nostro autore Florenskij la crisi della cultura è connessa con il razionalismo ed il materialismo.

La cultura può rinascere solo sulla base religiosa anche se la cultura occidentale si trasformò nella civilizzazione è incapace di una trasfigurazione consecutiva. La cultura russa mantenne una certa prospettiva connessa con la religione ortodossa malgrado il razionalismo occidentale che l’aveva contagiata.

Come si vede Pavel Florenskij non si ferma sulle questioni di culturologia ma egli pone le fondamenta della teologia della cultura. Questa fu la domanda importante per la Russia dell’inizio del secolo XX, è la domanda sul senso della cultura; questa domanda rimane attuale anche oggi.

Ecco volevo dire all’inizio anche che presentiamo questo breve testo nel contesto del titolo del tema del nostro convegno, del nostro seminario circa l’attualità del messaggio di P. Florenskij, anche per questo abbiamo scelto proprio il tema della cultura.

La prospettiva escatologica del pensiero russo dell’epoca portava i cenni dell’estremo scetticismo ascetico che si ispirava alle parole si S. Giovanni evangelista, nella sua prima lettera: “ Non amate né il mondo né le cose del mondo”. Questo fu l’atteggiamento di questo scetticismo ascetico che dominava per un certo periodo almeno in certi circoli intellettuali.

Questo atteggiamento veniva dalla convinzione che prima o dopo ciò che è cultura, l’opera umana, sarebbe finito nel fuoco dell’inferno. Il ben noto teologo russo di Parigi, addirittura francofono Pavel Evdokimov commenta questo atteggiamento così:

La cultura intesa così, sia dal punto di vista classico come quello romantico, si oppone all’escatologia ed all’apocalisse, essendo scandalizzata per il fatto della morte, la cultura combatte l’ultimo fine, tende però a rimanere nella storia. D’altra parte un certo iperescatologismo facendo un salto verso la fine dei tempi, sopra la storia, rifiuta qualsiasi valore della storia ed impedisce l’incarnazione, disincarna la storia. L’atteggiamento cristiano non è mai una negazione sia escatologica, sia ascetica. L’atteggiamento cristiano è invece un’affermazione escatologica. Questo è un commento di Pavel Evdokimov del pensiero di Florenskij. Lo stesso Pavel Evdokimov descrive il destino escatologico dell’arte e della cultura umana in genere nella sua visione profetica della fine dei tempi. Il linguaggio simbolico dell’Apocalisse parla della Gerusalemme nuova come del luogo dove porteranno gloria e onore dei popoli, quindi non entreranno lì a mani vuote. Si può pensare che tutto entrerà nel Regno di Dio, tutto ciò che avvicina lo spirito umano alla verità, tutto ciò che è espresso dallo stesso spirito nell’arte è considerato vero, tutto ciò che è frutto del suo genio entrerà nel regno di Dio unendosi alla sua vera realtà come l’impronta esatta aderisce al suo originale.

La maestosa bellezza delle cime coperte dalla neve, la tenerezza del mare e l’oro dei campi di cereali diventerà linguaggio perfetto del quale ci dice spesso la Bibbia.

In questa prospettiva escatologica della realizzazione, del compimento della cultura umana appaiono due sue funzioni importanti: teurgica ed iconica, cioè le funzioni della cultura teurgica ed iconica, cioè essere un segno essere simbolo di quello che proviene dall’altra dimensione.

Pavel Florenskij, in sintonia con la concezione ortodossa della cultura, espressamente sottolinea le origini liturgiche della cultura, la sua genesi cultuale. Egli chiama una cultura vera solamente quella che è cosciente della propria genealogia celtica o cultuale.

Così il punto di partenza per lui è il collegamento tra la cultura ed il culto.

Il culto viene trattato da lui come tutta l’attività dell’uomo, una specie tra le altre della sua attività culturale. Tutta la cultura umana è penetrata dal concetto della bellezza. Tutta la creatura di Dio è bella. Questo concetto contiene una nozione di armonia, perfezione, purezza e nel cristianesimo anche il bene. Infatti la divisione tra l’etica e l’estetica è un fatto dei tempi moderni, quando la cultura è già stata secolarizzata ed è già stata persa l’integralità della concezione cristiana del mondo.

La frase ben conosciuta di Fëdor Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” non è solamente una metafora, è una intuizione precisa è profonda del cristianesimo che, attraverso millenni della tradizione ortodossa, cercava questa bellezza. Proprio la tradizione del cristianesimo orientale percepisce il bello come uno degli argomenti che Dio esiste.

Secondo la famosa leggenda, il principe S. Vladimiro scelse il rito orientale proprio grazie alla testimonianza dei suoi inviati che gli riferirono la bellezza della liturgia della “aghia Sofia” a Costantinopoli.

Per i cristiani la bellezza non ha un valore assoluto senza essere immagine, segno, causa e una delle vie che conducono a Dio. In questa maniera Pavel Florenskij rifiuta sia l’ideologismo che l’economismo e sviluppa il concetto sacrale della cultura: questo concetto sacrale della cultura significa una ricerca nella storia di ciò che oltrepassa la storia e conduce fuori delle sue frontiere.

Nelle sue opere Florenskij molte volte ripete che diverse forme dell’attività umana vanno subordinate all’attività religiosa cultuale la quale da parte sua acquista un significato originario.

La cultura in questa prospettiva diventa un segno, un dito che punta sul Regno di Dio attraverso questo mondo.

“Sub specie æternitatis” : nella liturgia perenne del secolo futuro l’uomo canterà gloria al suo Signore mediante tutti gli elementi della cultura che saranno irrevocabilmente purificati, ma anche adesso sul nostro livello i membri della comunità cristiana scienziati, artisti partecipando nel sacerdozio comune svolgono la loro liturgia laddove Cristo è presente nella misura in quanto trasparenti sono i vasi che lo ricevono.

Sono simili agli iconografi dipingendo con l’aiuto della materia e luce di questo mondo i segni che disegnano lo schizzo misterioso del Regno. Invece l’arte che ha abbandonato il sacrum si è spogliata dal suo ruolo teofanico svolgendo il compito del collegamento dell’uomo con il mondo dell’aldilà il culto, il cuore, il centro, il fiore della cultura.

La manifestazione suprema, si può dire l’apoteosi dell’attività cultuale secondo Pavel Florenskij è l’arte della teurgia e l’iconografia. Allora tutta la spirituale creatività umana trova la sua sorgente e vertice qua.

Florenskij scrive: Tutte le belle arti sono anelli della catena dell’arte più creativa e più seria della teurgia, essa è il compito più importante della vita umana, il compito di trasformare la realtà il senso e la sorgente della vita, il cuore di tutta l’attività dell’uomo.

Il valore più grande dell’iconografia consiste nella possibilità di raccogliere insieme, di unire ciò che è eterno e temporale; incarnare l’incorruttibile in ciò che subisce morte e passa. L’iconografia permette di toccare il divino e infonde la luce nella vita umana.

Secondo il concetto sacrale della cultura essa, l’iconografia, aiuta l’uomo a percepirsi come immagine di Dio. questo per sé è una prova dell’esistenza di Dio. Florenskij scrive: Se esiste la trinità di Rublev, l’icona della trinità di Rublev, esiste pure Dio.

E’ un esempio magnifico del suo modo di pensare. Così egli propone una tesi sul carattere sovrannaturale dell’arte cultuale, sacralizza le sue opere, attribuisce ad esse proprietà sovrannaturali, grazie alle quali possano mediare tra l’uomo e il mondo, possono essere sorgente della cultura.

Avendo presentato questo breve testo voglio ancora osservare che esiste una difficoltà oggettiva quando poniamo la domanda del senso e sul senso della cultura in Pavel Florenskij. Questa difficoltà proviene dal fatto che non ha creato un concetto integrale, monolitico della cultura. Praticamente in ogni articolo, in ogni pubblicazione scopriamo qualche altro aspetto, cerchiamo poi di trovare un legame. Però questo che ho presentato è solo un tentativo di trovare una chiave per capire un po’ meglio il senso della cultura in Florenskij e sottolineare l’importanza di questa concezione della cultura anche oggi nel nostro spazio postsovietico, cioè lo spazio dove nella libertà può rinascere grande tradizione russa.

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Prof. John Lindsay Opie - Università di Roma

L’esperienza diretta del simbolo in Pavel Florenskij fu precoce. Egli racconta, nelle memorie dell’infanzia nel Caucaso, le sue prime intuizioni di un mondo formalmente perfetto e completamente efficace che agiva dietro allo sfumato e al tremolio delle apparenze visibili e le lega insieme.

Il giovane Pavel fu fatalmente attratto dal mondo invisibile come in una fiaba e al suo annuncio poteva cadere quasi in trance. In tali momenti il bambino percepiva l’universo o oggetti individuali in esso come simboli, in quanto il simbolo propriamente detto costituisca un anello di congiunzione tra questo mondo e quello, sia una consistenza materiale che rivela la propria dipendenza da un archetipo assoluto.

L’anelito delle idee sovrarazionali e immutevoli insieme al sospetto che possano essere inerenti alla struttura dell’universo e l’anima umana è un dato fondamentale del romanticismo ottocentesco, è la versione seria dell’esotismo romantico, la reazione alla riduzione immortale della linfa spirituale ai livelli razionale e materiale in conseguenza all’illuminismo quale culmine della rivoluzione scientifica tardorinascimentale.

Talvolta comunque la nostalgia generale risultò nella riscoperta personale e autentica degli archetipi formanti della metafisica tradizionale, tale fu il caso inceppato e incostante del poeta inglese William Bligh, semiconsapevole in quello di Radiščev grande critico, discorsivo e scientifico di Goethe, visionario ma perfettamente oggettivo nelle celebri apprensioni della Sofia di Vladimir Solov’ëv ; mi riferisco, ben inteso, alle tre poesie di Sofia, ai tre incontri di Solov’ëv.

Invero fu la qualità oggettiva inevitabile dei tre incontri di Solov’ëv con la Sofia che più tardi spiega la direzione della poesia e della critica del movimento letterario russo intitolato al simbolismo, così diversa dalla soggettività programmata della contropartita europea contemporanea. Fu anche l’aspetto che consentì ai cosiddetti sostenitori di Solov’ëv il ritorno alla chiesa ortodossa anche se il maestro non può annoverarsi tra i pensatori della Chiesa.

Gli scritti di Pavel Florenskij, in seguito alla rivoluzione di ottobre, implicano tutti un’ortodossia integra sostenuta, peraltro, da una salda metafisica tradizionale ma consenziente alla libera elaborazione scientifica e poetica. La realtà simbolica, o meglio la realtà come simbolo, fu rivelata allora a Pavel Florenskij già nell’infanzia, fu confermata in seguito, da ciò che era più fresco e irrefutabile in Solov’ëv, è infine incasellata, per così dire, dalla rivelazione cristiana che la spiega e la completa.

La realtà si esplica su due piani collegati insieme dal simbolo l’uno materiale, l’altro invisibile, l’uno complesso e transeunte, l’altro semplice, perfetto e perdurante. Tale è la costituzione del cosmos, tale è anche l’esperienza umana in ciò che ha di più autentico e veridico. Ecco la testimonianza di tutte le religioni, dalla preistoria fino a oggi, e anche della riflessione intellettuale più tipica e consistente fino al rinascimento europeo compresi i suoi antecedenti. Come scrive Florenskij in proposito di quel simbolo così ricco e vario, così squisitamente cristiano che è l’icona. Cito: “Nei metodi della pittura di icone che scendono dall’antichità più remota chiaramente mi appaiono i fondamenti della metafisica e della gnoseologia universalmente umana, quel modo naturale di vedere e di capire il mondo così diverso da quello artificioso occidentale che ha ispirato i metodi dell’arte occidentale”, vale a dire, aggiungo io, del rinascimento, o si può dire dal rinascimento in poi.

Essendo il simbolo la chiave per la comprensione della realtà umana, quella interiore è chiaro che le riflessioni sul simbolo o sui simboli, sono sparse un po’ ovunque negli scritti di Pavel Florenskij progettò, ma certo non mai realizzò, un vasto dizionario universale dei simboli, un cosiddetto Symbolario il cui conspectus fu scritto tra il 1920 e il 1030. Quest’illustrazione del progetto fu tradotta e pubblicata da Elémire Zolla nel suo giornale Conoscenza Religiosa n.2 del 1987, richiama la vostra attenzione a questi rari scritti di Florenskij così importanti e quasi riposti e grazie a Zolla furono conosciuti in un epoca così relativamente remota. Il punto di partenza del dizionario dei simboli sarebbe stato, avrebbe dovuto essere l’ideografia, vale a dire l’espressione di concetti medianti immagini anziché, ben inteso, i nostri soliti mezzi fonetici.

L’ideografia secondo Florenskij dalle prime evidenze fino ad oggi, rispetto ai suoi principi è fondamentalmente identica; costituisce cito ancora: “In un certo senso la lingua universale dell’umanità, la struttura dell’ideografia è numerica e geometrica come in Platone le forme regolari geometriche forniscono il passaggio dalla confusione pletorica delle apparenze alle idee indefettibili e invisibili.

La seconda sezione del Symbolario, per esempio, è dedicata alla linea verticale e contiene sette sottosezioni, dalla linea verticale singola fino alla piramide e al cono e così di questo passo, per ben 18 sezioni della proposta, presentate da Florenskij che conclude con la sfera con l’uovo e la voluta.

Volgendo la nostra attenzione più specificatamente all’icona, anche in questo caso, le considerazioni di padre Pavel Florenskij sono molte e sparse in diversi lavori; di particolare importanza sono certe sezioni del capolavoro prerivoluzionario La colonna e il fondamento della verità, uscito nel 1914, l’edizione italiana, ricordo ancora una volta di Pietro Modesto la cui versione comunque è stata non soltanto presentata in uno smagliante introduzione da Elémire Zolla ma corretta superbamente, se posso dire, limata dallo stesso.

E qualche breve saggio come, cito, Le icone della preghiera personale di S. Sergio di Radonež.

Il sacro fondatore, ricordo, del monastero della Trinità di S. Sergio, vicino a Mosca, centro, lo è ancora, della vita monastica, spirituale russa.

In più, comunque, è dissimile alle riflessioni sul simbolo abbiamo un trattato sull’icona che è ampio, coerente e completo. Mi riferisco, ben inteso, all’ormai celebre Ikonostas, vuol dire iconostasi, in italiano, tradotto anche da E. Zolla nel 1977 per Adelphi e uscito successivamente in un numero straordinario di edizioni fino ad oggi. Più che edizioni sono ristampe, mi sembra dodicesima o quattordicesima edizione.

Zolla scelse di alterare il titolo del saggio, dall’originale Iconostasi in quello di Le porte regali, riferendosi all’ingresso centrale e principale dell’iconostasi chiuso da porte che si chiamano appunto regali, nell’usanza russa ma non in quella greca, esse, le porte regali, ammettono al santuario e direttamente all’altare.

Questo saggio fu scritto nel 1921-22 a Sergiev Posad, allora chiamato Zagorosk, il cognome di un noto rivoluzionario, particolarmente sanguinario, il villaggio che accoglie il monastero della Trinità e di S. Sergio, già menzionato, dove padre Pavel, chiamiamolo così secondo l’usanza dei sacerdoti ortodossi, si occupava dello studio delle icone appartenenti alla collezione importante del monastero.

Leggendo Ikonostas o Le porte regali è bene ricordare queste circostanze e queste intenzioni che incidono sulla comprensione del trattato fortunato nel suo insieme. Altra circostanza, molto importante è che Ikonostas non fu mai pubblicato durante la vita di padre Pavel, uscì soltanto nel 1972 sull’ annuario del patriarcato di Mosca consacrato a studi teologici ma in una versione che risultò incompleta.

Nel frattempo una versione rozzamente abbreviata di, intitolata Icona era apparsa in russo sul Messaggero del Patriarcato moscovita, stampato a Parigi.

Fu la prima volta, se ben in forma drasticamente decurtata, che si poteva prendere conoscenza del trattato di padre Pavel, siamo nel 1969, da essa, da questo saggio intitolato Icona, non Ikonostas, da questa abbreviata versione furono tratte traduzioni in francese, in italiano da Zolla e in inglese da me stesso. Finalmente nel 1977, come già detto, vide la luce la prima traduzione di Ikonostas. Quella di Zolla in italiano, seguita nel 1981 da una traduzione polacca e nel 1985 da una ristampa importante, quasi ufficiale, in russo a Parigi.

Solo nel 1988 uscì finalmente e in lingua tedesca la prima versione integra di questa celebre, fondamentale saggio di padre Pavel seguita da una traduzione in francese ed eventualmente da versioni russe, una delle quali brillantemente annotata.

Dal 1988 fino ad oggi sono trascorsi ben 14 anni e da allora la versione italiana originale di Zolla continua ad essere ristampata nella forma incompleta e con gli errori originali, non corretta.

Non voglio muovere un ”j’accuse” contro l’amico Roberto Calasso ma la verità è questa.

Questo malgrado il grande interesse sempre mostrato in Italia ai testi di padre Pavel Florenskij, in generale, è l’importanza da non esagerare in specie di Ikonostas, nonché al fatto che grazie a Elémire Zolla Florenskij fu introdotto ai lettori occidentale per prima in Italia. Una nuova edizione completa, cioè con tutti i passi mancanti , compresi gli errori di traduzione corretti, è stata proposta all’Istituto Benincasa di Napoli, hanno acquistato anche i diritti d’Autore dagli eredi di Florenskij , io dovevo dirigere questo progetto ma sembra che sia andato a monte. Dico queste cose a voi nella speranza di qualche consiglio, se non di complicità, questo è il più importante trattato mai scritto, almeno nei tempi moderni, riguardante l’icona e le sue implicazioni a tutti i livelli, ed è non solo un peccato, cerco una parola per non dire è una falsificazione di un testo di fondamentale importanza.

Cosa si può fare per far uscire una versione completa senza offendere né l’editore né il traduttore? Forse avete qualche suggerimento da fare.

Mi dispiace perdere tanto tempo su queste questioni testuali ma nei riguardi di un testo, così ricco e così importante dell’ Ikonostas, la prima cosa è di essere consapevoli di ciò che si legge; tutto quel che si legge nell’italiano, nelle varie versioni o è incompleto o è falso, in qualche modo.

Questi travagliati problemi riguardanti il testo di Ikonostas non finiscono purtroppo qua, come vedremo tra poco, tutti i successori di Solov ’ëv si occuparono dell’icona in un modo o in un altro. Il ruolo giocato dallo stesso Solov ’ëv nella rivalutazione e comprensione dell’icona tradizionale è ancora da studiare. Dei suoi successori i tre saggi del principe E. Trubeckoj, usciti nel 1915-17, sono i più conosciuti. Esistono anch’essi in italiano, in più di una traduzione sfortunatamente dico, forse, perché questi saggi sono viziati dall’impressionismo romantico, rappresentano l’approccio, una specie di alto giornalismo.

Dopo Trubeckoj gli scritti più fortunati sull’icona della scuola di Solov ’ëv, ben inteso, sono quelli del grande amico di Pavel Florenskij Sergej Bulgakov. Ricordate tutti, sono sicuro, il famoso doppio ritratto del pittore Nesterov di Florenskij e Bulgakov che avanzano conversando, gesticolando l’uno all’altro; Florenskij era allora già prete, Bulgakov non ancora.

Padre Sergej Bulgakov scrisse un intero libro sull’icona intitolato L’icona e la sua venerazione nel 1930 e i suoi pensieri furono in seguito riepilogati nell’opera popolarissima intitolata L’ortodossia uscita in molte lingue. Questi lavori comprendono parecchie speculazioni personali, indipendenti alcune inaccettabili dal punto di vista del pensiero tradizionale ortodosso.

Altrimenti le considerazioni basilari di Bulgakov sono prese in prestito quasi interamente da Florenskij eccettuati gli errori, ben inteso, e gli adattamenti dell’autore ansioso di aggiungere l’icona allo schema delle sue idee preferite.

Questa constatazione apre la possibilità che il saggio florenskijano del 1922 non fosse soltanto conosciuto dagli amici ma che una copia o versione fosse portata all’estero nello stesso anno o nel seguente allorché Bulgakov partì in esilio.

Se questa derivazione, chiamiamola tale, non è stata ancora notata si deve al fatto che le idee fondamentali di Florenskij sull’icona non furono conosciute prima della pubblicazione di Icon, quella versione abbreviata e tagliata del 1969, mentre quelle di Bulgakov furono ampiamente diffuse ben quarant’anni prima.

Dei tre Trubeckoj, Bulgakov e Florenskij fu solo Pavel Florenskij, colui che rimase indietro, che fornì una considerazione dell’icona metafisicamente precisa e completa e nel contempo personale e impeccabilmente tradizionale.

Padre Pavel propone l’icona quale forma sacramentale che manifesta un prototipo rivelato. Non è il risultato, salvo nel senso secondario, dell’immaginazione artistica o dell’impulso teurgico, termine di moda presso Solov ’ëv e i successori.

Similmente l’icona è un oggetto teleologico, non teologico ma teleologico, totalmente significante e libero dall’associazionismo letterario di Trubeckoj. Non fu per niente che Florenskij anticipò gli strutturalisti e semiotici recenti che trattano l’icona e gli altri aspetti del culto ortodosso come insiemi oggettivamente necessari e interdipendenti.

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Prof. P. Gerardo Cioffari - Istituto Ecumenico "San Nicola" di Bari

La tematica che affrontiamo adesso è quella teologica e tocca due temi che apparentemente sono staccati l’uno dall’altro ma, come vedremo, sono strettamente connessi quella della sofiologia e quella del rapporto tra le Chiese, l’ecumenismo, una parola che in realtà non torna tra le opere di Florenskij e però lo prendiamo nel senso di approccio al problema dell’unificazione delle Chiese, che è abbastanza presente in queste opere.

Per semplificare cercherò di non riferire tutte le fonti a cui far riferimento ma alle principali, quelle che hanno lasciato un’impronta più forte sul suo pensiero e che ci servono come chiave per capire come mai ha degli atteggiamenti che sembrano contraddittori, un po’ come la sua dottrina già richiamata prima delle antinomie. In realtà Florenskij subisce influssi di carattere molto, molto diverso per cui anche lì si può parlare di una certa frammentarietà e poi in senso positivo o di una sintesi della teologia russa.

I tre che maggiormente hanno influito sul suo pensiero sono A. S. Chomjakov, capo dello slavofilismo, morto nel 1860 è colui che ha rivoluzionato l’ecclesiologia russa, ma oggi diciamo tutta quella ortodossa, perché su questo punto della sobornost, di questa conciliarità, di questa unanimità di questo popolo di Dio è entrato anche nella teologia greca ed è l’unico punto della teologia russa che è penetrato in tutta l’ortodossia.

Poi c’è Filarete Glasgov che è il grande gerarca, colui che nell’800 è stato il punto di riferimento per tutti gli scrittori con pochissime eccezioni, la principale delle quali è Leone Tolstoi il quale nei suoi scritti teologici si scaglia violentemente contro la Chiesa ortodossa

e ovviamente, dato che il principale rappresentante era proprio Filarete Glasgov, anche Filarete subisce l’attacco che in realtà è l’unico perché tutti gli scrittori di qualsiasi corrente parlano di Filarete Glasgov che è stato canonizzato alcuni anni fa, come colui che è al di sopra di ogni sospetto ed è un riferimento ecumenico per tutti gli ecumenisti cattolici e ortodossi.

Il terzo è Vladimir Solov’ëv il quale ha una posizione unica nel pensiero russo considerato il più grande filosofo russo in assoluto, però molto tirato per le maniche sia dai cattolici che dagli ortodossi; resta il fatto che è la fonte delle intuizioni più importanti sia della filosofia che della teologia russa, ma personaggio estremamente scomodo sia per i cattolici che per gli ortodossi perché era fortemente convinto, pur accettando il primato romano e tutti i dogmi cattolici, che la Chiesa già fosse una. Quindi nessuna differenza tra cattolici e ortodossi. Questa sarà una posizione con qualche sfumatura diversa di Sergej Bulgakov il quale però riconoscerà questa divisione canonica riconoscendo l’unità già esistente delle Chiese al livello mistico – sacramentale.

Quindi tre personaggi.

Filarete Glasgov è il grande gerarca che ha un’impostazione totalmente diversa non si ispira ad una filosofia della storia dei principi aspramente criticati da Elémire Zolla che è stato appena più volte citato che accusa appunto Chomjakov di questo balletto della storia, cioè i pensatori russi hanno una certa tendenza a giocare con la storia, a trovare delle linee conduttrici quasi sempre ovviamente a vantaggio della posizione ortodossa e questa è l’accusa appunto di balletto della storia. Ora forse l’espressione è forte, ma non si può negare che la posizione chomjacoviana sia abbastanza eccessiva.

Quella di Filarete Glasgov invece non parte da questo “balletto della storia” ma parte dalla liturgia. Ora Filarete Glasgov che cosa dice? Che il criterio per giudicare della ecclesialità di una comunità o di una confessione religiosa è il modo di recepire una conversione.

Ora nella Chiesa russa non c’è mai stato se non nel periodo 1611 – 1620 quando i polacchi hanno invaso la Russia e hanno massacrato migliaia e migliaia di monaci, infatti io ho fatto cinquanta voci di santi della Enciclopedia Ortodossa e la maggior parte dei santi russi sono stati uccisi dai Polacchi nel 1611, quindi la maggior parte, moltissimi di questi monaci. Quindi, fu soltanto dopo questo periodo drammatico di massacri che il Patriarca Filarete, che era il padre dello Zar, negò che un cattolico potesse convertirsi senza il battesimo e quindi per circa 10 anni in Russia si è ribattezzato, ma è stato, come ho detto, un’eccezione puramente di dispetto, di vendetta storica nei confronti dei Polacchi; mentre per tutto il resto non solo nei rituali russi non si contempla la ripetizione del Battesimo ma neppure della Cresima. E addirittura adesso leggevo che lo stesso Florenskij, questo mi è arrivato appena ieri, (Florenskij è tra gli autori più tradotti in italiano, che viene pubblicato continuamente, a getto continuo e escono, fortunatamente alcuni nipoti sono ancora vivi e quindi si è creato un archivio Florenskij che pubblica tutto ciò che ha scritto e tutta la corrispondenza con Bulgakov) e proprio mentre leggiucchiavo proprio in quest’istante, che nel ricevere una donna cattolica all’ortodossia Florenskij non le ha chiesto nulla, ha soltanto detto da adesso in poi sei nella comunità ortodossa.

Cioè i russi non chiedono ai cattolici se non una rinuncia a voce del primato romano, il resto non viene affatto calcolato come impedimento dell’unione alla Chiesa. Ora finalmente Glasgov parte da questa irripetibilità del battesimo dei cattolici, quindi validità dei sacramenti, e non può essere una validità puramente esteriore, ma deve avere un effetto di grazia, quindi la grazia, quindi la chiesa di Roma è chiesa a tutti gli effetti.

C’è un celebre testo le conversazioni tra uno convinto e uno che cerca sull’ortodossia della Chiesa orientale che è la magna carta dell’ecumenismo russo, in cui si dice io non mi sento di chiamare falsa nessuna Chiesa che prega Gesù Cristo. E quindi si può essere più o meno puri, più o meno con condizionamenti storici però non possiamo giudicare un’altra Chiesa della sua vicinanza allo Spirito di Dio, perché è soltanto Dio che sa fino a che punto siamo vicini. Quindi Chomjakov da una parte nega totalmente l’ecclesialità della Chiesa di Roma perché la Chiesa di Roma è uno Stato e semplicemente uno Stato.

Mentre noi vedremo che, nonostante l’influsso forte di Chomjakov, in Florenskij non si usa mai la parola confessione o comunità ma sempre la chiesa cattolica. Quindi questo ci fa capire come l’influsso arriva ma arriva soprattutto nel linguaggio, un linguaggio violento, un linguaggio aspro su questo fatto della poca spiritualità nella chiesa di Roma mentre c’è troppa organizzazione ecclesiastica e poca spontaneità e interiorità però nel contenuto si rifà a Filarete Glasgov .

Per quanto riguarda Solov’ëv è bene ricordare che forse è stato uno dei primi ad essere letto da Florenskij, fu quando Florenskij aveva una crisi religiosa, quand’era giovane, durante gli anni del Liceo quindi una specie di ateismo che lo pervadeva nel senso ateismo ma spirituale, un po’ come quello di Leone Tolstoi. Leggendo Tolstoi negava tutto del cristianesimo, negava la Risurrezione, negava la divinità di Cristo. Come sapete Tolstoi, dato che scriveva al tempo degli Zar, tutte le sue opere teologiche sono sette o otto, non sono state pubblicate in Russia ma in Inghilterra. Però sono opere più o meno teologiche con una costante: il rigetto del cristianesimo ecclesiastico; e quindi c’è un libro intero, per esempio, di critica alla teologia di Macario, che viene criticata anche da Florenskij e le altre teologie ortodosse, mentre secondo lui il centro del cristianesimo è la non resistenza al male per nessun motivo. Ora dato che commentando il sesto comandamento, cioè non uccidere, nella Chiesa ortodossa il sesto è non uccidere perché il primo viene sdoppiato, sia Filarete sia gli altri in qualche modo giustificano in guerra, sia autodifesa, ecc. mentre Leone Tolstoi è contro qualsiasi motivo che possa spingere uno a uccidere, neanche di autodifesa , né in qualsiasi circostanza.

Questa posizione influì su Florenskij per cui quando era giovane lui era anticlericale. C’è una lettera del 1899, in cui scrive a Tolstoi e gli dice: “Dopo aver letto la tua confessione sento di non poter più essere cristiano come sono stato finora”. Però a dire la verità dopo uno o due anni, e secondo me, è stata proprio la lettura di Solov’ëv il quale pure lui scrisse soprattutto sulla risurrezione di Cristo e nostra, negata ovviamente da Tolstoi. Solov’ëv probabilmente è colui che riporta il nostro Florenskij ad un cristianesimo combattivo. Quindi comincia anche lui a parlare contro ciò che è esteriore, contro ciò che è secondario al fine di proporre agli intellettuali come Tolstoi, che non era soltanto lui, c’erano molti altri intellettuali… era un momento di grande creatività nel pensiero russo, e quindi di poter rispondere al mondo dell’intelligentia con qualcosa di concretamente sentito della fede. In questo stesso periodo lavora, è stato accennato questa mattina, agli studi matematici, che per quanto possa sembrare strano hanno influito enormemente sulla teologia, perché lui faceva parte di quella corrente della matematica della aritmologia e della discontinuità, quella che poi in geometria è la geometria non euclidea di Nikolaj Ivanovič Lobačevskij che torna spesso nelle sue opere, quindi questa antinomia, questa apparente contraddizione continua nella realtà diventa parte della verità stessa.

Qualcuno ha criticato Florenskij dicendo, in particolare G. Flarovskij, colui che ha scritto la Storia della Teologia russa, uno dei più ortodossi fra gli ortodossi, ha attaccato Florenskij dicendo che questo è contraddittorio, ma a mio avviso non c’è contraddizione, perché l’antinomia di Florenskij non e in assoluto, non è anche in Dio, è nella conoscenza da parte dell’uomo che ha sempre e comunque la verità in modo contrastante, soprattutto quando si parla di fede, si parla di Dio uno ma anche trino, si parla di Cristo uomo ma anche Dio, si parla, e questo è interessante, la tradizione di Solov ’ëv, di Bulgakov , ecc.

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Abbiamo allora una posizione complessa che trova una certa armonia nella cosiddetta sofiologia, che è uno dei campi, oggi abbiamo sentito la parola: è difficile comprendere Florenskij, questo è uno dei campi altrettanto difficili, che proviene in gran parte da Vladimir Solov ’ëv. Ricordate che Solov ’ëv ad un certo punto ha accettato il cattolicesimo.

Ognuno, sia Florenskij, sia Bulgakov, sia Trubeckoj, sia gli altri cercavano in qualche modo di staccarsi, di trovare degli elementi di stacco da Solov’ëv. Allora l’accusa nei confronti di Solov’ëv che ha creato, diciamo prima che cos’è e poi vediamo dove stanno le critiche.

Secondo Solov’ëv al Concilio di Calcedonia nel 451 la Chiesa ha raggiunto un compromesso tra la corrente nestoriana e la corrente monofisita, tra quelli che insistono su Cristo come uomo e quelli che insistono su cristo come Dio.

Un compromesso, Cristo non è confuso, non è mischiato tutto in uno, non è questo… ci sono quattro avverbi, tutti cominciano con la “a” privativa. Allora Solov’ëv dice: che non sia il caso di cominciare a trovare una soluzione positiva; cioè come mai un Dio si è potuto fare uomo, lo dobbiamo accettare solo per fede o possiamo cercare di capirci qualcosa, questa è l’origine della sofiologia: cercare di capire come un Dio perfettamente spirituale può creare un mondo, può trasmettere dal nulla e fuori di sé un qualcosa che è totalmente diverso da Lui. L’onnipotenza? Ecco, secondo Solov’ëv, secondo i sofiologi è un’accettazione per fede, ma non ci fa capire nulla l’onnipotenza di Dio. Dio non è onnipotente che può fare quadrato un cerchio. C’è l’onnipotenza lecita e l’onnipotenza non lecita. E quindi per cercare di capire cosa può essere successo, Solov’ëv mette un elemento intermedio che si chiama Sofia, la sapienza divina che è la parte sostanziale, non personale della Trinità, la parte sostanziale che si esprime soprattutto nell’amore interno alla Trinità, questo amore interno che chiamiamo Sofia, è quello che giustifica, ammette fisicamente la possibilità che un Dio si abbassi. Quindi la creazione è un abbassamento, è una Kenosis, un Dio che scende perché ama, e quando si ama ci si abbassa verso la persona che si vuole amare per attrarla a sé. Quindi questo amore creativo, che però non è soltanto un amore mio o dell’altro che nasce e muore, perché in Dio nulla muore ma è eterno, questo amore è la Sofia, la Sapienza divina che permette di non immaginare un Dio come Karl Barth tutt’altro, perché altrimenti non si spiegherebbe la creazione, se non con l’onnipotenza ma con l’amore di Dio. E quindi tutto esiste, dice Florenskij, quando vuole esprimere in modo bello questa espressione, riporta in più opere la bella espressione di Silesio, questo mistico tedesco del Rinascimento: “la rosa che tu vedi con i tuoi occhi esteriori esiste in Dio dall’eternità”, la rosa che nasce e muore, lì per lì in realtà dice Florenskij, dice Silesio prima e Florenskij insiste esiste in Dio dall’eternità, tutto esiste in Dio dall’eternità. Ecco l’aggancio con l’ecclesiologia. Se noi ci stacchiamo un po’ dalla Chiesa locale, ci stacchiamo un po’ dai sacramenti, dal ritualismo, dalle regole, dai canoni e saliamo un po’ verso l’alto e cerchiamo di entrare nella mente di Dio e Dio che immagina da sempre il mondo, non è che Dio da un certo giorno si è svegliato e ha creato il mondo, il mondo c’è da sempre: ecco perché l’eternità del mondo non è un panteismo come sono stati accusati sia Solov’ëv che Florenskij e Bulgakov, ma è sempre voluto da Dio eternamente, ma sempre voluto dall’amore di Dio quindi non è mai Dio, è una divinizzazione ma per grazia di Dio, non per natura sua e quindi questa eternità ci fa immaginare anche le cose della Chiesa, delle Chiese non come qualcosa da assolutizzare come muri che dividono, ma come muretti perché visti dall’alto anche il muro ci permette di vedere dall’altra parte.

Questo è il senso di una sofiologia che ha come scopo principale quello di far capire come mai Dio che è tutto spirito può creare un mondo materiale. Se uno si accontenta dell’onnipotenza ha risolto il problema, ma questi filosofi russi ritengono che è troppo semplice risolverlo con l’antico compromesso del Concilio di Calcedonia e con l’onnipotenza ecco quindi questa sapienza.

Soltanto mentre Solov’ëv ci vedeva poeticamente anche un elemento femminile, l’eterno femminino, quindi c’è un Dio Padre, allora immagina questa Sofia come un qualcosa che recepisce; quando si parla di amore uno pensa più alla donna, quindi al femminile e allora questo aspetto è stato classificato dai critici come una sofiologia erotica, una sofiologia in cui c’è troppo di carnalità. In realtà anche Florenskij e Bulgakov in qualche modo hanno preso di questo elemento anche se hanno voluto staccarsi criticando la carnalità come un elemento del cattolicesimo e non dell’ortodossia.

Per quanto riguarda l’ecumenismo le mie fonti sono cinque, adesso devo aggiungere questo che è appena uscito, la corrispondenza con Bulgakov, sono cinque, tre esistono anche in italiano, e secondo me è questo che crea l’equivoco di un Florenskij antiecumenico perché quello che è uscito: Colonne e fondamento della verità, Dogmatismo e dogmatica nel cuore cherubico sono piuttosto antiche, il linguaggio è quello chomjakoviano, quindi puntando il dito contro la Chiesa di Roma. Poi c’è una tradotta in italiano che già ci fa vedere lo spirito cioè Il sale della terra racconta di quando ha incontrato la starec Isidoro, questo quand’era sbarbato, quarant’anni prima, quando era ancora giovinetto faceva da coppiere, cameriere al vicario di Trinità S. Sergio Zagorsk e

stavano parlando questo vicario con Filarete Glasgov di cui ho parlato prima, e stavano parlando di come è possibile unire le Chiese. Come si può fare perché il problema di fondo è chi deve comandare in questa Chiesa unita. Ovviamente i cattolici dicono il Papa però anche i Russi che vogliono unirsi e non vogliono il Papa, ma che si può fare? Dobbiamo rinunciare per sempre a questa unione? Allora mentre discutevano di queste cose lo starec Isidoro disse, ma scusate perché non facciamo comandare la Madonna? Togliamo il Papa e togliamo i nostri Patriarchi e mettiamo la Madonna. Ora su questo punto, anche se sembra molto ingenuo, è interessante pensare che un Bulgakov, che è una mentalità così metafisica e così sottile, quando ha fatto gli interventi al Consiglio mondiale delle Chiese ha scandalizzato tutti che uno di queste elevatezze metafisiche ha incentrato sulla Madonna l’ecumenismo.

Quindi un ‘ecclesiologia in cui si cerca di trovare il meglio non solo come fatto oggettivo della madre della Chiesa ma anche ciò che più unisce cattolici e ortodossi.

E questo lo dice in uno spirito simpatetico Florenskij che ci fa capire che è vicino, però noi confermiamo questa impressione con altre due opere che non sono state tradotte, ma che si trovano nel primo volume, sono usciti i 4 volumi delle opere complete, in edizioni abbastanza semplici un po’ come si stampavano ai tempi dei Sovietici, quindi un libro piccolo ma con 800 – 900 pagine. Sono 4 volumi.

Il primo comprende altre due opere Il concetto di Chiesa nel Nuovo Testamento che non è stato tradotto e non è stato tradotto neppure L’ortodossia . Sono due scritti che ci confermano come, fra l’altro ho detto prima ci conferma abbondantemente anche la corrispondenza con Bulgakov che ci fanno vedere un Florenskij ecumenico.

Cioè, a parte il fatto che parla sempre di Chiesa cattolica, in questo scritto parla spesso dei santi sia della Chiesa cattolica sia della Chiesa ortodossa. E così in molte espressioni soprattutto come affrontare il cristianesimo, come deve affrontare la cultura, come deve affrontare l’intelligentia anticlericale, il cristianesimo sia cattolici che ortodossi, cioè ce lo fa vedere uno scritto che non è uscito in italiano, sono un po’ sorpreso perché è una bellissima sintesi dell’ortodossia, dove dice per esempio che le icone, le candele e gli inchini per l’ortodosso sono più importanti del Filioque, dell’Immacolata Concezione e del resto perché l’essere ortodosso non è, dice Florenskij, rinunciare al Filioque, rinunciare alla comunione sotto una specie, farla con due, ma il vivere, il costume, però questo stesso fatto che richiama che c’è un costume ci ricorda il principale influsso di Filarete, cioè il cristianesimo è stato recepito in Oriente e in Occidente in due modi diversi, e lì non ci possiamo fare nulla.

Dobbiamo accettare questa diversa mentalità che certo può creare che qualcuno sia più vicino al Signore e qualcuno più lontano, ma non si può dire che uno è cristiano e ortodosso e l’altro no. E quindi la conclusione dal punto di vista ecumenico è abbastanza forte e cioè Florenskij usa un linguaggio duro perché ha lavorato su Chomjakov, cioè per una fede pura, per una fede spirituale, per l’interiorità e tutto questo, però rimane fortemente sensibile alla fede, alla grazia dell’altra Chiesa per l’influsso di Filarete.

Qual è il giudizio che hanno espresso i vari autori.

Non sarà facilissima la canonizzazione, io sono favorevole, secondo me è uno dei maggiori santi in circolazione sia fra i cattolici e gli ortodossi perché veramente fino alla fine ha vissuto la sua fede, però dal punto di vista pratico non sarà facilissima perché anche lui ha la sofiologia, cioè questo elemento intermedio tra Dio e il mondo. E questa sofiologia in Bulgakov è stata condannata sia dal Patriarcato di Mosca, a quell’epoca, sia dalla Chiesa avversaria degli emigrati antiecumenici. Quindi condannata anche dai loro seguaci. Quindi Florenskij indirettamente, qualche volta direttamente, ma più spesso indirettamente ha subito il contraccolpo non solo della grandezza teologica ma anche della condanna di Bulgakov. Quindi per poter andare avanti in una eventuale causa di beatificazione o canonizzazione dovrà scrollarsi di dosso, non è impossibile, perché ho letto un articolo recente di un Vescovo russo che rappresentava proprio la voce ufficiale in cui persino Bulgakov veniva quasi non riabilitato ma certamente si invitava a studiare meglio la sofiologia perché la condanna non era proprio del tutto spassionata, era perché il gruppo di Parigi si rifiutava di mettersi con Mosca e di mettersi con le altre Chiese, è rimasta una Chiesa a parte sotto il Patriarcato di Costantinopoli, è russa ma sotto il patriarcato di Costantinopoli, allora il sospetto è molto forte che la condanna di Bulgakov non sia stata perché c’era la sofiologia, ma perché quelli non si volevano sottomettere. Quindi adesso i russi vedono con animo più sereno e poi Florenskij ha il grande vantaggio che la sua morte, la maniera in cui è morto, la scoperta del 1991, prima tutti quanti, anch’io nei miei testi abbiamo messo il 1943 come anno della morte di Florenskij, adesso tutti quanti ci correggiamo i testi, l’8 dicembre venne fucilato presso Leningrado, quindi questa morte da martire sicuramente farà camminare, se non arriveremo, certamente nella mentalità comune dei fedeli ortodossi è già considerato un santo.

È per me una grande gioia perché lavoro nel campo ecumenico che questi personaggi che riconoscono la grazia e l’ecclesialità della Chiesa di Roma, sia pure con un linguaggio critico, come anche Filarete possano avere questo riconoscimento ufficiale perché certamente influirà positivamente sui rapporti fra le Chiese, quindi in prospettiva speriamo. Questo è la speranza anche se bisogna avere anche pazienza della riunificazione delle Chiese.