CENTRO PARROCCHIALE SAN SEBASTIANO VIA ROMA 41 – VIGONZA (PD)
La mostra “Stupore del Sacro”, che si svolge presso il Centro Parrocchiale San Sebastiano a Vigonza (PD) in via Roma 41, presenta le Icone delle Grandi Feste nella tradizione liturgica.
CENTRO PARROCCHIALE SAN SEBASTIANO VIA ROMA 41 – VIGONZA (PD)
La mostra “Stupore del Sacro”, che si svolge presso il Centro Parrocchiale San Sebastiano a Vigonza (PD) in via Roma 41, presenta le Icone delle Grandi Feste nella tradizione liturgica.
ARTE SACRA: l’icona
La sapienza pittorica al servizio della fede
25 febbraio 2011 – ore 21 parrocchia SS. Trinità via G. Giusti, 25 – Milano
introduzione all’arte sacra e in particolare all’iconografia
a cura di Giovanni Mezzalira, maestro iconografo
L’attenzione che negli ultimi decenni si è data all’icona e alla sua riscoperta rivela che non è completamente annullato in molti artigiani artisti quel desiderio di creare oggetti di culto e devozione secondo la Tradizione. Continua a leggere
L’Officina dei Santi
G. Mezzalira – E. Bertaboni – G. Matta – A. Ambrosi
Il desiderio di vedere finalmente realizzato un programma iconografico completo a servizio dello spazio liturgico ha spinto alcuni pittori della Scuola di Iconografia dell’Abbazia di Maguzzano a progettare e concretizzare, di propria iniziativa, una pittura murale pensandola come esempio e corredandola di approfondite riflessioni e contestualizzazioni nella realtà litugrigca odierna tristemente aniconica e senza forma. Continua a leggere
Ciclo di incontri tenutisi nell’ambito delle attività della scuola di Iconografia San Luca.
docente: Annarosa Ambrosi
Obiettivo del presente ciclo di tre incontri: individuare i fondamenti teorici dell’efficacia dell’icona nel trasmettere il sacro, sia nel passato come ai nostri giorni. In particolare, individuare quei riferimenti teorici cui fa riferimento la definizione del Concilio Niceno II (878) secondo cui “le cose rinviano l’una all’altra in ciò che raffigurano come in ciò che senza ambiguità esse significano” (da: MENOZZI, La Chiesa e le immagini, ed. s. Paolo 1995, p.102).
Posizione del problema
Come si sa, fin dall’inizio i cristiani hanno fatto uso di immagini (figure come la colomba, il pesce, l’ancora, la nave, scene bibliche o particolari), testimonianti in genere la speranza di salvezza dei credenti. Però, di fronte alla domanda se rappresentare o meno il volto di Gesù, avranno dovuto sicuramente fare i conti con il primo comandamento (Es.20,4 e Dt. 4,15-18), dato che Egli si qualificava come Figlio di Dio. Nella Chiesa dei primi secoli abbiamo varie posizioni:
Nascita di una teologia dell’icona con aspetti di continuità rispetto alle correnti mistiche.
Dal VI secolo si va verso lo sviluppo di una teoria dell’immagine in continuità con le filosofie di tipo mistico-contemplativo. Ciò opererà la trasformazione dell’immagine di culto in icona, e ciò avverrà quando si affermerà che il Prototipo rappresentato è in qualche modo presente nella sua immagine, che diventa icona in quanto partecipa della realtà del rappresentato. All’origine di queste riflessioni stava probabilmente la recezione cristiana della dottrina neoplatonica di Dionigi l’areopagita, secondo la quale Dio si riflette in una armonica discesa gerarchica, dalla dimensione trascendente a quella immanente, attraverso una serie di gradi che compongono la struttura dell’universo. La contemplazione dell’immagine, che è un riflesso di Dio, consente all’uomo di ripercorrere la gerarchia in senso ascendente, giungendo dal piano materiale a quello spirituale. L’immagine, come depositaria della presenza del divino, si avvia pertanto ad assumere, nella Chiesa delle origini, una funzione liturgica e sacramentale.
Il passaggio teorico da immagine a icona richiede la comprensione del concetto di simbolo, formulato fin dall’antichità, sulla base di una consuetudine con valore concreto, prima che teorico. Se ne trova una utilizzo nel Simposio di Platone (191d), dove si attribuisce a uno dei protagonisti del dialogo la seguente frase: “Ognuno di noi è dunque la metà (symbolon) di un umano resecato a mezzo …” . Egli si rifà alla consuetudine di usare come segno di riconoscimento una delle due parti della tessera spezzata: l’autenticità era provata dal perfetto combaciare delle parti. Ricordiamo che per Platone la realtà è una copia del mondo ideale, gli assomiglia, partecipa di esso, nella realtà il mondo trascendente si manifesta, quantunque in maniera sbiadita e soggetta al mutamento. Nell’ambito del platonismo si sviluppa perciò una concezione simbolica della realtà: esiste un mondo visibile che è simbolo di quello invisibile, il quale può essere conosciuto se si ammette tra i due un rapporto di analogia o corrispondenza, rapporto non convenzionale, ma ontologico, sostanziale. In virtù di tale legame, il simbolo possiede un potere interno di rappresentazione. Vi possono essere altri tipi di legami (mimesi, metessi, parusia), tra cui quello di somiglianza, che, però, è più debole, e destinato ad affievolirsi, di mano in mano che ci si allontana dall’elemento trascendente. Questo ambito di pensiero è terreno favorevole a una concezione “forte” (= che attribuisce grande efficacia nella comunicazione col mondo trascendente) nella teologia dell’icona.
Invece nella teologia dell’icona che matura all’interno della tradizione aristotelica (Teodoro, Niceforo, Fozio – IX sec.) l’immagine non partecipa sostanzialmente, ontologicamente della realtà divina: rappresentante e rappresentato rimangono due realtà diverse, ma, per omonimia, si riferiscono alla stessa persona. L’omonimia non è un legame forte e si presta all’equivocità (una parola = tanti significati). Secondo questa concezione la venerazione passa dall’immagine materiale alla divinità per omonimia non equivoca.
Ma torniamo al pensiero simbolico. Poiché esso teorizza la possibilità di trasmettere contenuti di verità tramite immagini sensibili, facendo corrispondere ad esse idee o realtà invisibili, può far leva anche sull’immaginazione, e la fantasia, accendendo l’emozione e il sentimento. In tal senso il contenuto invisibile potrà penetrare sia nelle menti più elevate e inclini alla contemplazione, che negli animi e nelle menti meno portate all’esercizio della ragione e del logos (Pseudo Longino, Sul sublime).
Quando tra le due tessere non c’è un forte legame ontologico di corrispondenza, ma più debole, come quello di somiglianza o omonimia, si ha l’allegoria. Il suo significato è: rimandare ad altro. A differenza del simbolo (che è univoco), dunque, quest’ultima può essere equivoca, e la somiglianza può risultare confusa, offuscata. Avvertito questo pericolo, lo stesso Platone e naturalmente i principali filosofi greci, avevano bensì riconosciuto un certo valore di verità allo stesso pensiero simbolico (e comunque un fascino in tutti i tipi di mente), ma preferirono ad esso la fatica del logos, del pensiero dotato di ragione, più efficace, se non nella comprensione, sicuramente nella comunicazione veritiera.
Nell’individuare coloro che attribuiscono al mito valore di verità, Platone si riferiva alle concezioni religiose misteriche dell’antichità. Soprattutto orfiche. Uno scritto che ci documenta questo legame è un papiro antichissimo, scoperto negli anni ’60, il più antico trovato in Grecia, risalente al 340-320 a.C., ma contenente un testo più antico (papiro di Derveni), che è il commento allegorico a un poema orfico, in cui si riconosce valore di segno (enigma) alla poesia. Vi si dice che il divino Orfeo comunica agli uomini tramite enigmi, non perché li voglia ingannare, bensì perché deve dire cose importanti, che i non iniziati non possano comprendere. Platone era più vicino alle concezioni pitagoriche, le quali privilegiavano, come forma di razionalità, quella matematica. Secondo scrittori antichi “Pitagora parlava per simboli”.
Il fatto di non escludere valore di verità al pensiero simbolico fa avvicinare tra loro queste tre correnti del pensiero antico (platonismo, orfismo, pitagorismo), tale tipo di pensiero infatti si basa su alcuni presupposti loro comuni, innanzitutto:
Questi aspetti ci fanno capire che la nostra corrente di pensiero fu subito guardata con interesse e venne privilegiato da parte delle religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo), nei loro primi tentativi di presentarsi in forma filosofica.
Un rischio, per una visione univocista, era quello di accentuare a tal punto la continuità tra i due mondi, fino a risolverli totalmente l’uno nell’altro. E’ quello che avviene nell’antichità con il pensiero stoico, che pur mantenendo una forte carica etica e una forte tensione speculativa, è caratterizzato da un totale materialismo. A noi, comunque, interessa perché è forse al suo interno che nasce una consapevole filosofia del simbolo, quantunque fondata sull’immanenza e sulla sensazione.
Per gli stoici (Crisippo) i concetti, pur nascendo dalla sensazione (che ha valore di verità a livello individuale o particolare), hanno anche comune valore universale, perché il sapere dell’uomo è cumulativo e collettivo (ad es. i poeti greci gli apparvero come collettori e artefici di un sapere comune, in quanto veicoli di quel logos o principio attivo che tutto accomuna e compenetra, conferendo ordine e armonia al principio passivo, cioè la materia).
Per gli stoici l’etimologia dei nomi riporta all’origine dei concetti, tanto che Crisippo attribuiva alle etimologie valore di prova scientifica.
Gli stoici applicarono ai testi dei poeti antichi l’interpretazione di tipo allegorico (v. sopra). Chiaramente il loro monismo non avrebbe consentito l’interpretazione simbolica: il simbolo non avrebbe rimandato a nessun’altra realtà: l’universale è il concetto presente esclusivamente nella mente umana). Teorizzarono valore di verità dei miti, e i referti dell’allegoresi erano equiparabili alla scienza, in nome dell’unicità della verità, e data la equipollente validità dei due metodi.
Questa loro posizione va di pari passo con quella secondo cui più un autore è antico più è vicino alla fonte della verità, quasi che il logos fosse più puro all’inizio della storia umana, e che in seguito la visione della verità si fosse come offuscata. Perciò l’interpretazione doveva tener conto delle deformazioni subite nel tempo (da ciò l’equivocità dell’allegoria).
Essi individuarono vari tipi di esegesi: fisica (es. gli dèi sono forze naturali), etica (gli dèi sono forze morali), storica (un fatto storico realmente avvenuto fu all’origine del mito).
In ambito stoico era privilegiata l’interpretazione fisica degli dèi olimpici: tutte le divinità sono manifestazioni parziali di un’unica divinità, che è fuoco e logos, causa e principio attivo immanente di tutta la realtà. Il filone della filosofia simbolica non è molto praticato, per questo gli autori sono considerati minori, e così pure le loro opere. Tra queste ricordiamo quelli recentemente pubblicati da Bompiani nella raccolta Allegoristi dell’età classica, opere e frammenti, e il manuale di L.A.Cornuto, Compendio di teologia greca. Sappiamo inoltre dell’esistenza di Cheremone (tramandato da Porfirio) secondo il quale gli antichi sacerdoti egiziani erano filosofi, depositari di un’originaria sapienza, e che egli, con la sua interpretazione allegorica della loro teologia si proponeva di mostrare le verità filosofiche soggiacenti ai miti. D’altronde il suo contemporaneo, l’evangelista Luca, negli Atti degli Apostoli (7,22) riporta, per bocca del diacono Stefano, la tesi che Mosè fosse stato istruito nella sapienza dagli Egizi.
E con ciò arriviamo al personaggio che a noi interessa maggiormente, perché comprese, fece propria e applicò l’interpretazione allegorica, traghettandola dal mondo della cultura pagana a quella religiosa ebraica: Filone di Alessandria, dotto ebreo della diaspora, vissuto ad Alessandria d’Egitto a cavallo dell’era cristiana.
Filone, formato alla cultura greca, affascinato dalle potenzialità della filosofia simbolica in campo esegetico, la applica alla Torà ebraica (Pentateuco), interpretandone in questa chiave il testo, e di fatto avviando sistematicamente (sebbene, sembra, non per primo), la lettura allegorica, presto imitato dai dotti cristiani di Alessandria (Clemente e Origene), quindi dai Grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente (Gregorio di Nissa, Basilio, Girolamo, Ambrogio, Agostino …).
Il suo obiettivo era rintracciare nella Scrittura una verità di tipo filosofico, che infatti riuscirà a mettere a fuoco e che sarà chiamata “filosofia mosaica”, dato che il Pentateuco si riteneva tutto opera di Mosè. Aderendo però egli a una visione filosofica e religiosa dualista e non monista (come gli stoici), di fatto la sua interpretazione “allegorica” si potrebbe considerare piuttosto una interpretazione di tipo “simbolico”.
Se andiamo a considerare i contenuti della sua filosofia troveremo elementi tratti proprio da ambito platonico, pitagorico, orfico e stoico, e in particolare molti degli aspetti sopra elencati, mirabilmente rivisitati, sintetizzati e armonizzati con il contenuto biblico. Ad esempio utilizzerà le idee platoniche, ma in lui diventeranno i pensieri di Dio, o meglio i pensieri del logos divino, che prima di realizzare la creazione, ne produrrà il progetto archetipico ideale (il mondo intelleggibile): e questo corrisponderà all’attività di Dio nei primi sei giorni della creazione. Inoltre in ciò troviamo un avvicinamento dell’opera creatrice divina a quanto operato dal Demiurgo platonico nel mito verosimile del Timeo, con sostanziali adattamenti in senso veramente creazionistico, cioè ex nihilo.
Per quanto concerne lo stoicismo, lo svuota del materialismo, e rilegge in chiave trascendentalistica ad es. la figura del logos (anche il ruolo di mediatore attribuito da lui al logos fornirà strumento filosofico per una prossima concettualizzazione del ruolo di Gesù Cristo).
Dal pitagorismo sfrutta l’interpretazione simbolica dei numeri, dell’orfismo riprende la necessità di una iniziazione e purificazione.
Nell’interpretare l’espressione “facciamo l’uomo”, ravvisa la presenza di collaboratori divini alla creazione o intermediari, frapponendo tra Dio e la realtà creata una serie di potenze intermedie, di cui la prima è, come abbiamo visto, il logos, e le altre sono progressivamente digradanti, addirittura causa delle imperfezioni nel risultato finale. Questo discorso a noi interessa perché, le varie potenze sono tra di loro in rapporto “iconografico” ciascuna a immagine di quelle superiore (FILONE, L’erede delle cose divine, XLVIII, in Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, Rusconi 1994, p. 830), e, rispetto a questa, l’inferiore ne è un’impronta, che, a sua volta si trasmette, benché più sbiadita.
Sembra che non ci sia una trattazione sistematica sulla differenza tra simbolo e allegoria, ma Filone teorizza un contesto separazione, ma anche di sintonia e corrispondenza tra i due mondi, ad esempio quando (FILONE in op. cit. p.743) descrive i contenuti delle leggi “simboli esprimibili di realtà inesprimibili”, e “simboli visibili di realtà invisibili”.
Inoltre:
Purtroppo però, quando si tratta di classificare i vari tipi di allegoria, Filone un po’ si perde: dapprima segue la bipartizione classica greca in due tipi:
ma in essa vengono successivamente introdotte varie articolazioni, che gli studiosi di Filone cercano di capire.
In particolare mi sembra interessante quanto mette in luce J. Danielou, che distingue tre piani dell’allegoresi:
unificati da un presupposto di continuità tra i tre ambiti: il passaggio tra i vari piani avviene grazie alle corrispondenze sussistenti tra questi, e cioè proprio per il fatto che il mondo fisico è appunto simbolo di quello invisibile, e che l’uomo è un microcosmo in cui i due convergono, si unificano, proprio come le due tessere del symbolon.
Per concludere su Filone:
Ogni elemento è in sinergia reciproca con il tutto. L’essenza di Dio è trascendente, la sua potenza immanente. Dio, pur essendo invisibile ad ogni essere materiale, è tuttavia visibile nelle sue opere.
Secondo un interprete (Landner, citato da Byckov, L’estetica bizantina, Congedo editore 1983) Filone fu il primo ad avvicinare il concetto di immagine (eikon) all’idea platonica, contribuendo così a dare una impostazione nuova ai problemi del simbolo e dell’immagine, che verranno ripresi nel mondo cristiano.
Se pensiamo che l’indice valutativo di un’immagine è la bellezza, comprendiamo quanto questa sia importante nel farci ripercorrere la scala che ascende dal fisico al metafisico.
A sottolinearne il ruolo fu un altro grande, il più grande e ultimo filosofo platonico dell’antichità, Plotino (205-270). Il suo pensiero, altamente speculativo, rappresentò il vertice e la sistematizzazione della concezione mistica (nei rapporti uno-molteplice).
Per lui la virtù consiste nell’essere simili a Dio, somiglianza che si raggiunge con la fuga da questo mondo, tramite la purificazione, separando cioè l’anima dal corpo (l’anima è cattiva finché è mescolata al corpo).
Per lui la bellezza ha proprio lo scopo di elevare dal mondo sensibile al piano trascendente, sempre in virtù del rapporto di analogia partecipativa che lega i vari piani dell’essere.
Anzi, si sofferma ad analizzare i vari tipi di analogia, identificandola con la proporzione matematica, e tra i vari tipi di proporzione sceglie quella geometrica, in cui la somma degli estremi è uguale alla somma dei medi.
Nell’ambito del platonismo, la sua teoria della bellezza e il ruolo positivo dell’immagine lo distanzierà da Platone, per cui l’arte, essendo copia di copia, non può che allontanare dal mondo trascendente della realtà archetipica.
Anche le sue concezioni, rese concilianti con le verità della fede cristiana, ispireranno gli artisti e indicheranno la via da seguire, non solo nel primo millennio cristiano, ma saranno sue le “idee nuove” che faranno produrre le creazioni più sublimi dell’arte rinascimentale.
Un altro importante autore pagano, ma anello di congiunzione con la teologia cristiana è Proclo, neoplatonico post- plotiniano. Nella sua Teologia platonica sostiene che alla verità e a Dio non si giunge solo mediante la filosofia e il ragionamento, ma anche attraverso il mito, la bellezza e la fede, che sono in grado di guidarci verso un’unione mistica con l’Assoluto. In particolare pensa che questo avvenga attraverso la comprensione dei simboli divini contenuti nell’anima, dirigendosi così nella direzione dell’approfondimento della teologia simbolica.
Nella sua visione univocista, tutti gli enti procedono dall’Uno tramite somiglianza. Il tutto appare governato unitariamente, e organicamente collegato in ogni sua parte, tramite divinità intermedie che derivano da quelle superiori, caratterizzate da un sempre maggior grado di astrattezza e unità, come in una catena, in cui i singoli anelli dipendono da quelli che precedono e collegano quelli che seguono. Quanto scrive sui Nomi Divini (PROCLO, Teologia platonica, ed. Bompiani, p. 181) ci introduce a Dionigi Areopagita, autore cristiano cui abbiamo accennato all’inizio, e da cui riprenderemo la prossima volta.
2. Il pensiero cristiano.
Il Cristianesimo si confronta con le categorie filosofiche e con la cultura tardo- antica. E’ evidente la possibilità di collegamento con la filosofia platonica, per i seguenti aspetti generali:
Molti sono i contesti scritturistici che legittimano questo avvicinamento. Ad es. il prologo del vangelo di Giovanni, ma anche le prime riflessioni teoriche fornite dalle Lettere di S. Paolo e dalle Lettere cattoliche (“ogni grazia eccellente e ogni dono perfetto discende dall’alto, dal Padre delle luci” Gc. 1,17, “tutto esiste da Lui e per Lui” Rm. 11,36; Gesù è luce del Padre, “che illumina ogni uomo che viene in questo mondo” Gv. 1, 1-9), 2Cor. 3 (tutto, ma in particolare il v. 18: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore”).
Dalle prime riflessioni patristiche, sempre supportate dalla Scrittura, si evidenziano altri collegamenti,
Tra i due mondi, il primato ontologico spetta a quello invisibile, se non altro perché “dall’invisibile ha preso origine ciò che si vede” Eb. 11, 3 e Gv. 6, 63: “lo spirito dà vita, la carne non giova a nulla”.
Dopo la conclusione della vicenda terrena di Cristo, con il ritorno di Gesù al Padre , la linea di confine tra i due mondi, data dalla visibilità, si ripresenta ad oscurarne il collegamento, c’è bisogno di un raccordo, di una saldatura, perché sia possibile continuare a trasmettere, anche dopo la conclusione della vicenda terrena di Cristo la conoscenza della verità e la grazia divina che concede la salvezza. Ecco il ruolo della Scrittura e della Chiesa.
Quanto alla verità, Dio la comunica all’uomo tramite la Rivelazione, la sua Parola, la Sacra Scrittura. Qui i contenuti di verità sono presenti in maniera così estremamente ricca e abbondante da richiedere la necessità di criteri interpretativi (sui quali, da subito ad oggi la Chiesa continua a vigilare). La Rivelazione infatti non ci svela la Verità nuda, ma “in aenigmate” (ICor. 13, 12), cioè attraverso segni, simboli, miti, linguaggi diversi che hanno bisogno di essere decodificati. Ecco dunque aperta la discussione ermeneutica, sul valore cioè da dare a questi segni.
I criteri per la lettura e l’interpretazione cristiana della Scrittura si trovano nella Scrittura stessa, lo stesso Gesù li spiega (ai discepoli di Emmaus Lc. 24, 25-27) e applica a se stesso i simboli dell’AT (vedi anche Giovanni 5, 46, 6, 30-33 e 58, 8, 25ss. e 58, 12, 31-36, 13, 19-20…), Gal. 4, 24. Riprendendo l’esegesi di Filone, che applicava alla Sacra scrittura l’interpretazione allegorica che gli antichi facevano sui testi classici, la scuola cristiana di Alessandria d’Egitto, in particolare con Origene, esplicita questi criteri, che saranno sostanzialmente seguiti dai padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. Si fondano sul seguente parallelismo (De Principiis, IV, 2, 4): “come l’uomo è formato da corpo, anima e spirito, lo stesso dobbiamo pensare delle scrittura”. Troveremo perciò:
Ecco l’importanza del possesso del linguaggio simbolico, dell’entrare in una mentalità simbolica: il contenuto visibile del simbolo rimanda a una realtà invisibile, precedente e più originaria, la verità invisibile, nascosta alla massa e svelata ai sapienti, che per il cristianesimo poi possono ben coincidere con i semplici.
Ma questa visione mistico-speculativa non sempre si accorda con gli stessi criteri ermeneutici forniti dalla Scrittura (la Scrittura supera ogni filosofia, e d’altronde ogni filosofia può offrire strumenti per una teologia biblica): i limiti sono stati evidenziati dalla scuola teologica di Antiochia, i quali preferivano al termine simbolo quello di tipo (Eb. 11, 19). L’approccio ermeneutico antiocheno è definito “escatologico”, perché la perfezione della realtà cui allude il simbolo, non si ha prima, ma dopo il simbolo stesso. Questo è aristotelismo perché secondo il finalismo aristotelico l’atto (= piena realizzazione della realtà) è successivo alla potenza (= possibilità non sviluppata).
Es:
Questi segni sono destinati a essere soppiantati dalla vera realtà, che perciò viene dopo di essi, e non prima. Non hanno un forte valore rivelativo proprio, ma si rendono comprensibili solo dopo che la loro pienezza si è realizzata.
Naturalmente il filone precedente non ignora tali frasi bibliche, ma le giustifica con un altro riferimento biblico: il valore simbolico del tempio, dei sacrifici e della legge antica, richiamati dalla Lettera agli Ebrei, stavano nel fatto che Mosè, che tal legge aveva data, aveva visto sul Sinai il loro archetipo eterno. Se la loro realizzazione è Cristo, nei vari aspetti della sua opera redentrice, ebbene Mosè doveva avere visto il Cristo stesso (Es. 25, 8-40, anche At.7, 44, e Vita di Mosè di Gregorio di Nissa). Anche per questo Mosè diventa il più importante dei profeti: egli, sul Monte, aveva conosciuto Tutto, ma non lo poteva comunicare, tanto meno poteva dare Lui la salvezza: ha però scritto la Torà, in cui, in prefigurazione, c’è tutto.
Noi approfondiamo la visione “platonica” perché sarà poi quella privilegiata dalla teologia dell’icona di s. Giovanni Damasceno e quindi anche dal Concilio Niceno II (che però non ignorano né escludono totalmente l’approccio aristotelico-antiocheno).
Nel cammino verso l’esplicitazione della teologia dell’icona cristiana, una tappa importante sono gli scritti di Dionigi Areopagita.
Egli parte da alcuni presupposti scritturistici che orientano in senso platonico ( “dalla creazione del mondo in poi le perfezioni invisibili di Dio (bontà, bellezza) possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute” Rm. 1, 20, e ricostruisce la gerarchia che da “Padre delle luci”(Gc. 1, 17) giunge alla più infima delle creature, secondo un rapporto di immagine-impronta. Grazie alla partecipazione , tutto il creato può darci qualche informazione sul mondo celeste perché “le cose visibili sono immagini che manifestano le cose invisibili”(DIONIGI, Tutte le opere, Ep. X, Rusconi 1981 p. 460).
Il simbolo evidenzia il legame di parentela tra le cose visibili e quelle invisibili, partecipando alle stesse caratteristiche ontologiche della realtà invisibile e trascendente cui esso rimanda. Afferma Dionigi: “la stessa macchina del mondo sensibile è come un velo gettato sulle proprietà invisibili di Dio” (Id., Ep. IX, p.454). E qui vediamo la metafora del velo, applicata da s. Paolo nella Scrittura (2Cor. 3,14ss), ampliata fino a comprendere tutta la realtà sensibile.
Afferma ancora Dionigi: “alla nostra intelligenza non è dato innalzarsi sino alla contemplazione immateriale delle gerarchie celesti, se non mediante la guida materiale che le è propria, supponendo le bellezze visibili come raffigurazione di quelle invisibili, le fragranze sensibili come impronte delle diffusioni spirituali, le lampade materiali come immagine della luce spirituale, le ampie dottrine sacre come pienezza della contemplazione spirituale, i gradi degli ornamenti terreni come accenni all’armonia e all’ordine divino … in breve, tutto quanto concerne le essenze celesti è, in maniera super-degna, trasmesso nei simboli (CH I, 3, 121c – 124a, p.79).
ma con questa distinzione:
I primi vengono utilizzati per evidenziare caratteristiche comuni, es. il fuoco, con la divinità (luce, calore, vita, ecc), ma siccome, nella scala gerarchica il fuoco è molto lontano rispetto a Dio, la parentela è affievolita, risulta poco efficace. Per essere efficace l’analogia dovrebbe essere in negativo: Dio non è luce, calore,vita, ecc., nel senso che non c’è confronto tra queste immagini simili e il loro corrispondente nella realtà divina (linguaggio apofatico).
Ecco che subentrano i secondi: se è abbastanza appropriato dire che Dio è luce, ed è molto più appropriato il negarlo, potremo parlare di Tenebra divina, o, come nella Trasfigurazione, di nube oscura. (v. anche “verme”). Questo tipo di linguaggio (apofatico), proprio dei simboli dissimili, è più adatto a introdurci nel mistero di Dio.
È comunque la Scrittura stessa che usa il simbolismo delle realtà naturali. Ad esempio, commentando la visione di Ezechiele, afferma: “Se poi la Sacra Scrittura applica alle sostanze celesti la forma dell’elettro, delle pietre dai molti colori, è perché l’elettro, in quanto avente la forma dell’oro e dell’argento, designa lo splendore incorruttibile, inconsumabile, indiminuibile, immacolato, come avviene nell’oro, e la chiarezza lucente e brillante e celeste come è nell’argento … invece gli aspetti dei diversi colori delle pietre bisogna credere che significhino: quelle bianche lo splendore della luce, quelle rosse il fuoco, quelle gialle l’oro, quelle verdi la giovinezza e la forza” (CH XV, 7, 336c p.132).
Lo svelamento del simbolo a volte non è immediato: occorre una speciale illuminazione che svolge il ruolo di sollevare il velo: la realtà contemplata non può più, però, poi essere negata, non solo, ma il contenuto svelato è altrimenti inesplicabile. Afferma sempre Dionigi: “Se qualcuno potesse vedere le armonie nascoste nell’interno delle cose, troverebbe che tutto è mistico e divino, e riempito di molta luce divina” (Ep. IX, p. 542)*.
Il tentativo di esplicitare queste armonie nascoste è, per esempio, quello che si fa nella nostra pittura iconografica quando si cerca la struttura geometrica, cercando di ricondurla alla sobrietà essenziale dei segni e delle linee: essenziali, ma dal concentrato senso simbolico (verticale-orizzontale, cerchio, centro, rapporti che poi restano invisibili, ecc.). La controprova si può avere confrontando una composizione che ne tiene conto con una che non ne tiene, ad es. nel volto di Cristo.
Lo stesso materiale usato, attinto direttamente e senza sofisticazioni dal mondo della natura, ne esplicita in pieno le potenzialità rivelative: è resa cioè trasparente l’oggettività simbolica della natura, è evidenziato il legame ontologico di parentela tra le cose visibili e quelle invisibili.
Il linguaggio simbolico dell’immagine supera la forza di quello discorsivo, e ci introduce anche, misticamente, nell’intuizione di verità logicamente contraddittorie (es. il mistero trinitario con la Trinità di Rublev).
Non solo, ma coinvolgendo, grazie allo splendore della bellezza, che è il criterio valutativo dell’immagine, oltre l’ambito intellettivo, anche quello emotivo-psichico e quello sensibile, si può dire che è in grado di adempiere una funzione anagogica, cioè avviare il cosiddetto cammino di ritorno all’Uno, dal piano visibile rende possibile risalire a quello invisibile, da un’esperienza sensibile a una spirituale, attraverso i sensi purificati: è resa possibile l’ “esperienza di Dio”. Si tratta di una esperienza mistica, unitiva, che lascia come conseguenza nell’uomo (a mo’ di fuoco che rende incandescente il metallo e lo purifica) la possibilità di essere investito di grazia divina e quindi di salvezza. Mentre la storicità dell’Incarnazione rende possibile la salvezza in generale, per tutti gli uomini, la via mistico-esperienziale dentro la Chiesa rende reale la salvezza per ogni singolo individuo.
Già da questo elenco possiamo capire:
Parla poi della venerazione: nell’immagine (“l’onore dell’immagine passa al prototipo” Basilio) non si venera certo la materia, ma la materia non è spregevole, come ritenevano gli gnostici e i manichei, ma santificata, riportata alla bontà iniziale, a causa dell’Incarnazione.
Continua poi con la funzione delle immagini in ordine alla salvezza: grazie alla partecipazione delle divinità nel Cristo, non solo il cosmo manifesta la gloria di Dio, ma , per suo mezzo, “la natura, dall’infimo della terra si è innalzata al di sopra di ogni principio e si è assisa sul trono stesso di Dio”.
Possiamo fare immagini di santi come di coloro che, per partecipazione al fuoco, suono diventati fuoco (non per natura ma per unione), sono diventati simili a lui, sono divinizzati, hanno seguito l’esempio di Cristo, ne hanno seguito le orme, e possiamo noi stessi imitarli.
Segue un elenco di luoghi scritturistici e patristici, presentati e commentati, che confermano la legittimità del culto delle immagini (qualche es. p. 70-71 ed. Città Nuova) tratte anche dal filone “aristotelico” (75 e 83), come pure da prassi devozionali, o perché sono temute dai demoni (84-85).
Per concludere:
Errata corrige
* p. 452 (non 542). Il passo citato è riferito alla Sacra Scrittura, ma è estensibile alla “macchina del mondo sensibile”, come dal sopra citato passo (id. Ep. IX, p. 454. Vedasi anche il sopra citato passo da Ep. X, id. p. 460).
LETTERA APOSTOLICA
DUODECIMUM SAECULUM
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO PP. II
ALL’EPISCOPATO DELLA CHIESA CATTOLICA
PER IL XII CENTENARIO
DEL II CONCILIO DI NICEA
Venerabili fratelli, salute e benedizione apostolica!
1. Il dodicesimo centenario del II Concilio di Nicea (787) è stato l’oggetto di molte commemorazioni ecclesiali ed accademiche. La stessa Santa Sede vi si è associata (cf. “L’Osservatore Romano”, 12–13 ottobre 1987). L’avvenimento è stato parimenti celebrato con la pubblicazione di un’Enciclica di Sua Santità il Patriarca di Costantinopoli e del Santo Sinodo, iniziativa che sottolinea quanto siano ancora attuali l’importanza teologica e la portata ecumenica del settimo ed ultimo Concilio pienamente riconosciuto dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa. Continua a leggere
Il 19 dicembre 1874, all’età di 21 anni (un mese dopo la discussione della sua tesi accademica per il titolo di magister), V. S. Solov’ev ottiene la cattedra di Filosofia nel ruolo di docente ordinario all’università di Mosca. Era figlio dello storico Sergej Michailovic, all’epoca rettore della stessa Università (cosa che, comunque, si dice non abbia influito direttamente sulla nomina, data l’effettiva preparazione del giovane magister).
Dopo un semestre d’insegnamento, chiede ed ottiene di recarsi a Londra per studiare presso la biblioteca del British Museum. Qui per la seconda volta ha il fenomeno mistico della visione della Sofia, come egli stesso racconta, che lo invita a recarsi in Egitto, dove in effetti si reca tra il ’75 e il ’76: qui ne avrà una terza e ultima visione.
Vladimir S. Solovëv
In parte al Cairo e in parte a Sorrento, dove si ferma per una tappa al ritorno, scrive in francese un’operetta che in una lettera alla madre (4.3.76) definisce ironicamente di tipo “mistico-teosofo-filosofico-teurgico-politico”.
Quest’operetta non vedrà allora la stampa. Il manoscritto – 82 grandi fogli autografi, di difficile lettura, pieno di abbreviature, annotazioni, lacune e con cattiva numerazione – raccolto dal nipote, e che si trova attualmente negli archivi dell’università di Mosca, verrà pubblicato per la prima volta con il titolo di La Sophia nel 1978 da François Rouleau, a Losanna, nella sua lingua originale, il francese.
Aleksej P. Kozyrev, maggior studioso attuale di Solov’ev, nella sua riedizione dell’opera (1991), propone una numerazione diversa dei fogli rispetto a quella di Rouleau (riproposta dal curatore dell’edizione italiana A. Dall’Asta, che anch’io seguo, preferendola a quella di E. Treu, che segue Rouleau). In questa ristrutturazione, gli scritti composti al Cairo e a Sorrento (in forma dialogica), sono preceduti dalla parte in forma monologico-espositiva, ritenendo che sia stata composta precedentemente, sia per criteri interni, che per riferimenti alla prolusione ai corsi universitari moscoviti del gennaio 1875.
I primi tre capitoletti dell’opera (di stile monologico-espositivo), con cenni alle fonti del pensiero di Solov’ev.
I primi tre capitoletti possono essere considerati una difesa della possibilità della conoscenza metafisica, a partire dall’evidenza dell’esperienza fenomenica, salvaguardata nella sua oggettività ed esteriorità (dunque non idealisticamente prodotta).
Il superamento del livello fenomenico è dato per necessario, ad esempio, con la seguente argomentazione: realtà ed esperienza possiedono una propria intrinseca ragion d’essere, un proprio senso, che però non svelano immediatamente, creando un cosiddetto “bisogno metafisico”. Inoltre: esiste un fine, uno scopo all’attività umana, sia teoretica che pratica: sul piano conoscitivo il fine è la ricerca della verità e su quello morale la ricerca della felicità. Entrambe però (sia verità che felicità) non sono immediatamente date, riscontrabili con semplice evidenza nel piano fisico, ecco dunque il bisogno metafisico di superare la realtà immediata. Il prodotto sono tutti i sistemi filosofici e religiosi che vogliono dare all’intelligenza la verità, e all’attività pratica norme etiche.
Nemico, all’epoca, dell’atteggiamento metafisico, era l’atteggiamento scientista tipico del positivismo. Che Solov’ev attacca col metodo della “reductio ad absurdum”, cioè dall’interno della motivazione positivistica, per rovesciarla ed affermarne il contrario. Ad esempio: il bisogno metafisico è considerato una malattia dai positivisti, i quali perciò pensano che il rimedio (= i sistemi filosofici e religiosi) sia inefficace e inutile: l’umanità sarebbe perciò condannata a quella perenne frustrazione di cui egli prova drammatica esperienza. A ciò egli argomenta che “il perenne anelito” è talmente inerente e intrinseco alla natura umana, che saranno piuttosto coloro cui manca da considerarsi esseri anormali o mostri. E’ chiaro che il proprio forte e intenso bisogno metafisico lo portava a non accettare la diagnosi positivista di uomo malato e destinato a rimanere tale per sempre.
Ecco allora una prima accezione di filosofia come terapia: la visione filosofica che risponde alle più radicali domande dell’uomo, è efficace nel sanare i tormenti del suo anelito.
Nel secondo capitolo tratta di due argomentazioni antimetafisiche, una definita più corrente, volgare e un’altra propriamente filosofica. Quella volgare muove dalla constatazione che lo spirito umano è limitato e incapace di raggiungere l’essenza delle cose. Tale affermazione è confutata equiparandola a quella di chi, vedendo un bambino di pochi mesi non parlare, ne consegua che non parlerà mai.
Quanto all’argomento filosofico che prova l’impossibilità della conoscenza metafisica, viene presentato sotto tre diversi aspetti, di cui ci soffermiamo su quello che prende come punto di partenza l’oggetto che deve essere conosciuto, cioè l’essere metafisico (lettura commentata da op. cit., p. 136-139).
Nell’ambiente culturale non solo russo dell’epoca, rifiutare il positivismo e le sue radici illuministiche antimetafisiche significava fare i conti con il recupero idealista della metafisica. Volendo evitare di ricondurre tutto a Soggetto o a Ragione, Solov’ev si orienta verso Schelling (in quanto attento anche al polo oggettivo e all’irrazionale nell’Assoluto), anche perché Schelling recuperava tutta quella tradizione occultista ed esoterica che allora andava di moda in Russia, cioè, per capirci, i sogni del visionario Swedenborg, bersagliati da Kant, con tutta la sua folta schiera di predecessori e successori.
E Solov’ev cade in pieno nel fascino dell’attrazione dell’occulto: a Londra, al British Museum, infatti, ad altro non si era dedicato se non a sviscerare ed approfondire le fonti antiche e moderne della cosiddetta “filosofia occulta”, orientandosi tra la grottesca ciarlataneria in cui volentieri decadeva, per giungere a una gnosis limpida e distillata, da riproporre senza difficoltà in veste razionale utilizzando metodi e linguaggi attinti dai vari sistemi filosofici, linguaggi e metodi che egli dimostra di possedere e utilizzare con impressionante abilità. In fondo anche altri (sicuramente Schelling, forse anche lo stesso Hegel) avevano fatto così, solo che Solov’ev non ne condivide gli esiti panlogistici e i successivi rovesciamenti materialistici.
Caso mai si confronta con i pensatori di un’epoca che considera pervasa di analogo clima culturale, la tardo-antica età alessandrina immediatamente post-cristiana, e, sulla scia, ad esempio di Origene, confronta gli esiti della gnosis con la religione cristiana, affascinato anche dal fatto che questi pensatori cristiani erano pure prossimi a quella fonte originaria di sapienza dell’antichità che era l’antico Egitto. Ecco allora la verità universale, eterna, legata al passato, ma, in quanto eterna, capace di dare ancora frutti, cioè illuminante rispetto al presente e al futuro. Ecco dunque individuata la “via regia” che porta alla soddisfazione del pressante bisogno metafisico.
Tornando allo scritto La Sophia, esso contiene tutto ciò nella ribollente fase iniziale della scoperta giovanile.
Parte dialogica (e confronto con Boezio).
La parte dialogica vede come interlocutori “il Filosofo” e “Sophia”. Questa figura femminile è una specie di spirito-guida, giustificato anche razionalmente alla fine della parte monologico-espositiva precedente, e cioè fatto rientrare nel quadro metafisico di continuità tra il mondo divino trascendente e quello spirituale umano.
Il pensiero va alla figura femminile di Filosofia che consola il carcerato Boezio, figura femminile che gli appare, che egli descrive e che presenta molte caratteristiche simili alla Sophia di Solov’ev (lettura da Boezio, La consolazione della filosofia libro I). In particolare la Filosofia di Boezio, dopo averlo osservato, così diagnostica: “soffre di letargia”, la quale altro non è che dimenticanza, perdita di conoscenza, di memoria, di gnosis salvifica. E comincia la cura con i rimedi più blandi, che sono le domande volte a fargli ricordare qualcosa su di sé e sulle cose, in modo da verificare se è ancora accesa quella scintilla su cui far leva, per giungere al pieno ricordo della conoscenza dell’intero fine delle cose, nel cui oblio consiste appunto la malattia, che può essere di una gravità tale da portare alla morte. Ma la risposta alle domande più semplici dà speranza a Filosofia, che con paziente lavoro ricostruirà il filo della memoria e quindi la conoscenza e la salvezza. In particolare questo rammentare e ricordare progressivo e aiutarlo a ricollocare gli ordini di realtà al loro giusto posto, in cui consiste la stessa cura, porterà Boezio alla fine a capire che salute = bene = virtù = (che implica anche resistenza alle prove, tra cui quella cui è sottoposto = accettazione della imparziale fortuna, che non procede a caso ma secondo l’ordine stabilito e impartito da Dio, bene sommo). Salute è conoscenza, nei suoi vari gradi, fino a quello intuitivo, che permette di vedere le cose e la realtà dal punto di vista di Dio, perciò nel loro ordine.
Sembra quasi che Filosofia sia arrivata all’ultimo momento utile, ma ancora in tempo: tale privilegio è dovuto al fatto che Boezio l’aveva sempre ricercata e amata, e lei non ha abbandonato l’amante fervoroso e fedele nel momento della necessità.
Un analogo stato di sofferenza interiore si poteva forse ravvisare nella fase adolescenziale della vita di Solov’ev, che aveva rifiutato la tradizionale fede ortodossa trasmessagli dalla famiglia, dichiarandosi ateo, crisi da cui uscirà grazie ad una passione per Spinoza, cui seguirà un analogo forte interesse per Schopenhauer, in cui, per contrasto rispetto a Spinoza, trova conferma della frase del vangelo di Giovanni secondo cui tutto il mondo è male. Ricordiamo che il denominatore comune di tutte le visioni gnostiche dell’antichità era appunto dato dalla concezione negativa della realtà fisica.
Ma torniamo alla visione di Sophia.
In Solov’ev la a connotazione di Sophia è ancor più in senso mistico e religioso che in Boezio: infatti la sua prima apparizione si era verificata in contesto liturgico, durante la celebrazione della Divina Liturgia al momento dell’Inno dei Cherubini, e precisamente quando il coro canta “abbandoniamo le preoccupazioni mondane”, per essere in grado, appunto come cherubini, di passare dalla rievocazione dell’evento salvifico che si svolge qui in terra, a quello che si svolge in cielo. E’ anche il momento della chiusura delle porte regali al centro dell’iconostasi, quello in cui il mistero si infittisce e si nasconde dietro il velo della visibilità, ma non per questo è meno reale. Il fanciullo Vladimir vede invece le porte regali aprirsi, sparire la folla dei celebranti e dei fedeli e tra le nubi azzurrine dell’incenso e l’oro delle icone un volto di donna che gli sorride e che lo attrae in modo ben più prepotente dei precoci amori giovanili.
A Londra gli appare solo per invitarlo a recarsi in Egitto per incontrarla, e alla fine di una notte stellata e gelida trascorsa nel deserto (cito una narrazione poetica dell’evento da parte dello stesso Solov’ev in: Sulla Divinoumanità e altri scritti, Jaka Book 1971, p. 21):
“nel rosso porpora del cielo scintillante, / ripieni gli occhi di infuocato azzurro, / guardavi tu, come il brillar premevo / del giorno della creazione universale. / Compresi tutto d’uno sguardo solo, / immoto quel che fu, che è e che sarà … / … / Io vidi il tutto, il tutto era / un’unica persona di muliebre bellezza, / entrava a farne parte l’infinito, / davanti a me e dentro a me tu sola.”.
Sembra di capire che la visione è un’esperienza mistica di intuizione intellettiva, rispetto alla quale il dialogo è un cammino razionale volto a esplicitare il contenuto percepito in un attimo, sostenuto anche dalla forza che questa visione ha comunicato.
Il dialogo comincia con queste parole di Sophia (tra parentesi un mio commento):
“Tra l’Oriente pietrificato e l’Occidente che si decompone (entrambe degenerazioni dell’atteggiamento nei confronti della verità religiosa) perché cerchi colui che vive (citazione evangelica) tra i morti (riferimento ai sarcofagi egiziani)?” (cit. p. 162)
Il dialogo prosegue con l’obiettivo di cercare una verità vivente, da confrontare con il cristianesimo storico, nella convinzione che è solo la religione a poter assumere quel ruolo di unificazione del sapere, dell’essere e dell’agire nell’unità vivente ricercata.
Il Filosofo interroga Sophia sul principio primo di ogni sistema religioso e filosofico, ovvero sull’inizio della realtà e ancora sulla possibilità che questo sia conoscibile. Sophia gli risponde che, se è vero che la conoscenza umana è relativa e fenomenica, tuttavia i fenomeni esterni sono una manifestazione dell’essere in sé, manifestazione per un altro, grazie ad una relazione di corrispondenza. “La totalità dei fenomeni è la loro concatenazione generale o il loro ordine. … Ogni ordine presuppone un principio d’ordine. … L’ordine universale è la concatenazione dei fenomeni in relazione al principio assoluto, … che viene conosciuto non immediatamente nella sua specifica natura, ma (appunto) in relazione ai fenomeni (stessi), come il principio della loro gerarchia” (cit. p.167).
Il cammino che Sophia fa compiere al Filosofo parte dall’analisi sull’interiorità. L’esperienza interiore svela innanzitutto noi stessi come nuclei di forza o potenza o desiderio (di realizzare un certo atto, pensiero o desiderio, attualmente particolari e limitati ma potenzialmente infiniti). Dice Sofia: “Se tu sei potenza, quando agisci conservi il tuo essere, anzi lo manifesti, senza per questo diminuire in potenza”. Ugualmente agisce il principio, nel manifestarsi attraverso l’ordine universale e la concatenazione dei fenomeni.
Il soggetto eterno è anche spirito, per analogia al fatto che io percepisco come spirito il libero principio della mia realtà soggettiva individuale.
Il principio assoluto, per essere principio dell’essere, deve precedere l’essere. Il principio come forza originaria non è l’essere ma lo produce come attuazione della sua potenza.
Inoltre il principio assoluto, essendo uno, è semplice, non implicando molteplicità non richiede la relazione. Però, deve essere anche principio di pluralità, altrimenti lo si conosce per metà.
(leggere p. 169).
Come principio della pluralità il primum è amore, forza che innanzitutto permette all’unità di affermare se stessa, rispetto a qualcosa della sua natura che invece lo porta in direzione contraria. rispetto alla primaria unità divina: e questo qualcosa sarebbe il principio antidivino, che si configura come non essere ma aspirazione all’essere, appetizione o concupiscenza, il quale si impadronisce della molteplicità ideale (idee) e le sostanzializza materialmente come corpi, corpi per la sensazione, ovvero il massimo dell’esteriorità.
La vera unità positiva non fugge la pluralità ma vince su di essa tramite l’amore. Il principio assoluto non è libero se non trionfando eternamente sulla necessità di produrre l’essere esteriore. Questa vittoria si ha appunto mediante l’amore, e in ciò consiste la sua perfezione assoluta.
Il secondo principio, quello della molteplicità, sarà sempre, come il primo, potenza immediata, ma non di essere, cioè tendenza positiva, spirito, bensì potenza nel senso di desiderio dovuto a mancanza, privazione = materia, polo del principio che tende necessariamente alla cieca manifestazione esteriore e fenomenica (per i sensi), potenza passiva.
E qui si sente echeggiare tutta la tradizione mistico-esoterica, che Solov’ev utilizza anche per la teodicea Trinitaria, cui vengono ricondotte le prime tre ipostasi di Spirito, Intelletto e Anima.
L’Anima, in particolare, dotata di funzione passiva, quando pensa e vuole dedicarsi all’attività creativa propria del principio spirituale, e non accontentarsi di mantenere il suo legame con lo spirito, degenera (secondo il mito gnostico del peccato di Sophia, qui identificata piuttosto con l’anima del mondo).
La conseguenza è la nascita dell’essere parziale come molteplicità frammentata, che vuole affermarsi come potenza assoluta esclusiva in un essere parziale. E’ lo spirito antidivino, qui chiamato satana, spirito falso che può impadronirsi dell’anima del mondo e dell’anima umana per annientare la sua unità e distoglierla dal suo ruolo di centro cosciente e legame interiore tra tutti gli esseri.
Abbiamo così il caos, il disordine (campo fisico), l’odio, la malvagità (campo morale).
Sophia è l’anima del mondo in quanto vincitrice sulla disgregazione introdotta da satana , e sull’unione intellettualistica, razionalistica che il Demiurgo cerca di attuare (demiurgo = anti-intelletto, artefice di una unità formale, puramente astratta), e che, in campo morale corrisponde alla giustizia esteriore.
L’unità ricostruita da Sophia è fondata sull’amore, su quell’amore proveniente dallo Spirito divino che riunifica il frammentato mondo fenomenico alla luce del principio positivo divino.
Lo stadio finale e lo scopo del processo universale è la riunificazione completa dei due mondi, la libera sottomissione del mondo materiale a quello spirituale. Tramite la figura mediatrice di Sofia, anima spirituale del mondo, la materia diventa il corpo dell’organismo perfetto, da attuarsi tramite l’amore, vincitore sulla disgregazione del bellum omnium contra omnes e sull’ordine di tipo intellettualistico, astratto, sterile, fondato sulla giustizia esteriore, instaurato dal Demiurgo. Sophia è anche figura di quell’organismo sociale perfetto (=la Chiesa), in cui l’unità interiore è data dalla libera sottomissione al Logos-Cristo. Le anime sono la materia del suo corpo.
La sofferenza è la conseguenza dei limiti di un essere parziale, è lo stato di separazione delle anime, e di ogni singola anima, nel mondo materiale. Di conseguenza ogni essere parziale ottiene vera potenza e felicità solo nell’abnegazione, negandosi: affermandosi infatti si afferma solo come parziale =determinato da altro = schiavo della necessità esteriore.
Ma quando l’essere parziale si rinnega e si sottomette al tutto come suo membro, perde la sua parzialità esclusiva: in ciò consiste la guarigione, gode della vita del tutto, e poiché il suo essere membro del tutto è in accordo con la sua volontà, si sente libero, non soffre. Libertà e felicità per l’essere parziale consistono nella sua sottomissione volontaria all’essere universale.
La differenza rispetto allo stato iniziale è che allora la sottomissione non era voluta liberamente, frutto di una scelta. La sottomissione deve essere la negazione della negazione.
L’anima è principio di unità finchè è passiva, resta passivamente sottomessa al mondo ideale e spirituale: levandosi contro esso e separandosene infatti, come abbiamo visto, diventa principio dell’essere parziale ed esclusivo, della divisione, dell’odio e della lotta.
Il legame che connette l’essere parziale con il tutto è quello amoroso: meno un essere è limitato, più è collegato al tutto tramite il legame amoroso, e meno soffre. Più gli esseri sono lontani dalla perfezione divina, minore è il carattere universale del loro amore naturale e viceversa. Naturalmente si deve parlare di un amore completo e perfetto, che includa le due direzioni: quello ascendente, verso un essere spirituale superiore che è necessariamente unico e sessualmente complementare (v. Sophia), e quello discendente, inferiore, particolare.
Quando si ama un essere superiore si ricevono, per comunicazione libera interiore, i principi della sua vita spirituale, partecipando in tal modo alla sua vita, e alla vita divina.
Nelle pagine successive l’autore traccia la bozza di una cosmogonia evolutiva, nella sua dinamica disgregativa e ricompositiva, contrassegnata in particolare da quell’evento centrale che inverte la rotta discendente e che consiste nell’intervento salvifico di Dio nella storia tramite l’incarnazione del Logos, presupposto e condizione della possibilità di ripercorrere il cammino inverso e quindi giungere alla salvezza, di cui è prefigurazione e tipo la vergine Madre di Dio.
Ma ormai il dialogo è diventato il monologo di Sophia.
(fine della presentazione dello scritto La Sophia).
Brevi cenni sugli sviluppi del pensiero e della vita di Solov’ev.
La visione d’insieme esposta in questo scritto giovanile ispira la successiva attività teoretica di Solov’ev, il cui “sistema” si può dire che fu meglio esposto in quelle dodici Lezioni sulla teandria che tenne a Pietroburgo nel 1877, cui partecipò l’intellighentia dell’epoca, tra cui Dostoevskij, che ne rimase affascinato e ne fece propria integralmente la filosofia. Sarà inoltre l’ispiratrice dell’attività pratica di Solov’ev, che abbandonato presto l’insegnamento universitario, si dedicherà all’attività di animatore culturale della politica, della religione e comunque della cultura russa, con intensa attività pubblicistica, allo scopo di costruire quel corpo sociale perfetto in una teocrazia storica. In questo quadro è da collocare anche la sua discussa adesione al cattolicesimo, e l’apologia del ruolo storico della chiesa cattolica, pur senza mai rinnegare l’appartenenza all’ortodossia.
Le immancabili clamorose delusioni lo portarono, negli ultimi anni della sua vita, a rinchiudersi in un oscuro pessimismo, per poi recuperare la sua giovanile visione del mondo, ma ad un livello diremmo cosi metastorico ed escatologico, rilanciando cioè alla fine dei tempi il raggiungimento degli obiettivi ideali da lui intravisti, andando così a confluire nelle prospettive millenaristiche di cui pur aveva trovato traccia bazzicando nelle trame sotterranee della storia. Nei “Tre dialoghi e breve racconto sull’anticristo”, con la preveggenza tipica forse di chi è vicino alla morte (1900), cerca di sollevare il velo della storia per sbirciare nel XX e nel XXI secolo, il primo che vede attraversato da violenti avvenimenti totalizzanti, il secondo caratterizzato politicamente dal raggiungimento del regno dell’anticristo, che è colui che assopendo nel benessere materiale i bisogni anche metafisico-religiosi della massa, ne arriverà al controllo globale, con l’esclusione di pochissimi rappresentanti delle tre confessioni religiose cristiane che ne subiranno le persecuzioni, ma che si accingeranno anche a risorgere per andare incontro al Cristo glorioso della seconda venuta, riconosciuto come messia prima di tutti dagli Ebrei e indicato come sposo eterno dalla Santa Sofia, questa volta identificata con la donna vestita di sole dell’Apocalisse.
Sul pensiero religioso, filosofico e politico di Solov’ev, nonché sulle traduzioni dei classici antichi dal lui realizzate (per esempio tutti i dialoghi di Platone), sulle voci per l’enciclopedia filosofica che avrà ampia diffusione in Russia, si formerà tutta quella fervida intellighenzia che costituì la rinascita culturale russa del primo Novecento, spazzata via dalla rivoluzione sovietica, che costrinse alcuni ad emigrare, altri a consumarsi nei gulag. Qualcuno provò anche a sopravvivere, camuffandosi dietro il linguaggio sovietese della cultura ufficiale. Altri ancora videro nel comunismo sovietico la realizzazione del messianismo cui aveva dato espressione lo stesso Solov’ev.
Con Solov’ev e i suoi più o meno diretti discepoli, il pensiero filosofico e religioso russo attuale cerca con fatica di confrontarsi, come per riannodare un filo violentemente strappato, innanzitutto andando la leggerne per la prima volta le opere, per riprendere poi quanto di specifico dello spirito russo Solov’ev aveva saputo tematizzare, e anche per additare alla Russia il ruolo storico proprio della sua identità nazionale.
Ermeneutica del simbolo
Artisticamente “Santa Sofia” è la denominazione di un soggetto iconografico molto noto e molto amato in Russia. Rappresenta una angelica figura femminile di color rosso infuocato, vestita regalmente, seduta su un trono, collocata al centro di una serie concentrica si sfere celesti. Ai lati due suoi discepoli: la Madre di Dio e s. Giovanni Battista. Sopra, il Cristo-Logos e ancora sopra la volta celeste con angeli e al centro un trono dove non siede nessuno, ma dove sono collocati un libro e una croce.
Non si conosce l’origine di tale composizione iconografica, né il suo significato preciso, che comunque si collega al culto bizantino di S. Sofia (in cui onore Giustiniano fece erigere l’omonima cattedrale) e della Sapienza divina, già testimoniata nell’Antico testamento. Qui viene anche considerata come una realtà ipostatica, che ha partecipato con Dio alla fondazione del mondo, infondendovi ordine, peso e misura, ma anche gioco e ilarità. In Russia la vittoria del cristianesimo sul paganesimo venne identificata con la vittoria della Santa Sofia, cui venne dedicata la Cattedrale di Kiev. Le cronache della sua costruzione(1032) introducono un parallelismo tra Jaroslav, Giustiniano e Salomone, come costruttori di un Tempio alla Sapienza divina.
Per il messianismo slavofilo di Otto e Novecento, la Russia continua ad essere considerata ancora luogo privilegiato di manifestazione della S. Sofia (se non la sua stessa incarnazione storica), dunque luogo in cui avverrà, anche storicamente, la riconciliazione tra mondo trascendente e mondo immanente, alla fine dei tempi.
Secondo una prospettiva filosofica e religiosa che presuppone l’ontologia della scissione, la separazione, il dualismo radicale tra i due mondi trascendente e immanente, la perfezione del primo e la negatività del secondo, Sofia può essere interpretata come soluzione mitico-simbolica per indicare la sostanzialità della mediazione, e per spiegarne il salto in termini di caduta.
In una prospettiva univocista di tipo mistico, è la figura simbolica che rende contemplabili alcune strutture e dinamiche che regolano il rapporto tra Dio e il mondo, evitando però il panteismo sia soggettivistico che naturalistico, è la figura simbolica (ricordiamo il significato platonico del simbolo, cioè il ricomporre l’unità delle due parti di tessera spezzata, identificabili con i due mondi) che rende reale il rapporto di partecipazione, che rende comunicabile l’energia e la grazia divine, su cui si fonda la possibilità di risalita, cioè di salvezza.
I Padri della Chiesa (Atanasio, Basilio) affrontarono il tema della Sapienza divina in un’ottica di questo tipo, cioè della continuità tra i due mondi (secondo la teologia mistica codificata da Dionigi Areopagita) sollecitati anche dallo scritto cristiano di grande successo nei primi secoli “Il Pastore di Erma”, in cui il protagonista riceve messaggi da una figura femminile che gli appare. Solo che dovettero fare i conti con la femminilità della Sapienza e l’attribuzione paolina che indica Cristo come Sapienza di Dio. Infatti Atanasio distinse tra una sapienza creatrice, (attiva =Logos=Cristo)) e una sapienza creata (passiva=Sophia), che da ideale si concretizza , per diventare traccia di Dio nella creazione.
Secondo il filone sofianico della riflessione ortodossa russa del Novecento (Berdiaev, Averincev) la sapienza di Dio reggitrice del Cosmo e della Storia, è rivelata, sì, ma soprattutto ancora misteriosa e nascosta, custodita dal fascino di una tradizione criptica cui è più affine il linguaggio dell’esoterico, o al massimo quello dell’arte. Rispetto ad essa, l’approccio razionalistico (anche in campo teologico) tende a mantenere la separazione col trascendente, a identificare il trascendente con l’astratto, slegato dalla realtà, a considerare ogni visione realistica della trascendenza come una pagana, magico-superstiziosa ingenuità.
Il luogo del confine tra immanente e trascendente, abitato dal Guardino della soglia tra i due mondi, naturale e soprannaturale, visibile e invisibile è invero frequentato, oltre che dalle mistiche cristiane, anche dalle mistiche pagane, ebraiche e anche islamiche: ricordiamo le cosmogonie gnostiche, la Scala di Giacobbe, la Shekinah o Gloria divina, non conosco direttamente il campo islamico, mentre, per tornare nell’ambito della teologia bizantina, trovo significativa la teoria esicasta delle energie divine nella teologia di S. Gregorio Palamas, (XIV sec.), le quali permeano la creazione, permangono in essa, e rendono possibile la trasfigurazione spirituale dell’uomo (deificazione) e del creato.
Dal punto di vista gnoseologico, la Sapienza è unità del sapere in profondità, a livello di sorgente viva, fonte nativa ribollente, nella cui scoperta e valorizzazione sta il tratto peculiare del pensiero filosofico russo ad es. di P. Florenskij, che si propone la ricomprensione dell’idealismo realistico di tipo platonico a partire alle sue sorgenti vitali, alle quali la coscienza attinge il senso unitario dell’essere.
L’approccio illuministico e positivistico alla conoscenza, tipico invece del razionalismo della nostra modernità occidentale, considera pericoloso il ricorso al mito, per la sua ambiguità, perché equivale ad abbandonare il campo della razionalità e incappare nelle trappole del pregiudizio, dell’ignoranza, della menzogna, della falsità ottenebrante, e tutt’al più finalizzata al controllo delle masse (Roland Barthes, U. Eco).
(Ma questo ci rimanda all’antica tematica del rapporto mithos-logos )
Ma un altro percorso dell’ermeneutica novecentesca del mito è quella percorsa ad es. da Mircea Eliade, Jung, che lo considerano archetipo universale dell’inconscio individuale o collettivo, potente catalizzatore di funzioni, esigenze, bisogni propriamente umani, dunque di forte valore antropologico. Jung fu affascinato e studiò approfonditamente tutto il serbatoio di miti offerto dalla filosofia occulta. Occupandosi del Pastore di Erma, afferma che la donna che appare a Erma (avvicinabile alla Filosofia di Boezio e alla Sofia di Solov’ev), è il frutto del passaggio dal culto della donna a quello dell’anima nell’antichità.
Seguace di Bachelard nell’analisi razionale dei miti, allo scopo di guadagnarne alla filosofia e alla scienza le intuizioni metarazionali, J. J. Wunenburgher, che si è interessato anche alle visioni di Solov’ev, afferma che questo tipo di immagine (la Sofia) gioca un ruolo anagogico che rinvia lo sguardo dalla copia al modello, dal basso all’alto, ma anche dalla superficie alla profondità (cfr. analisi del profondo junghiana), rendendo possibile il ritorno della creatura verso la sua sorgente di vita e di salvezza, in un processo di deificazione, cioè reintegrazione alla vita perfetta, che è appunto quello terapeutico di guarigione[2].
Annarosa Ambrosi
Padova 14/3/2002
(Relazione di Annarosa Ambrosi per la serie di incontri sul tema: “Filosofia come terapia” – Padova – Liceo classico Tito Livio – marzo 2002)
[1] Fonti bio-bibliografiche in: A. DELL’ASTA, Introduzione a La conoscenza integrale di V. S. SOLOV’EV, La casa di Matriona, 1998. Da tale testo sono tratte anche le successive citazioni dell’opera La Sophia (ivi contenuta) di SOLOV’EV.
[2] AA.VV., Dalla Sofia al New Age, Lipa 1995, p. 95ss.
Contributo scuola di iconografia san Luca al Convegno Internazionale su San Luca del 2000
Hanno collaborato: Giovanni Mezzalira, Annarosa Ambrosi, Daniela Borgato, Wilma Pegoraro.
Si ringraziano quanti hanno fornito informazioni e suggerimenti qualificati, in particolare:
don Francesco Trolese, prof. Pina Belli D’Elia, prof. Sania Gukova, Padre Georges Gharib, prof. Valagussi.
Importanti informazioni sull’argomento sono disponibili anche sul Sito dell’Abbazia di Santa Giustina in Padova.
L’anniversario dell’Incoronazione della Icona Costantinopolitana della Beata Vergine Maria, Madre di Dio, venerata nella Basilica di S. Giustina ricorre il giorno 23 maggio.
Gli atti del Congresso su S. Luca sono stati presentati il 15/06/2002 presso l’Aula Magna dell’Abbazia S. Giustina in Padova. E’ stato illustrato il primo volume degli Atti del Congresso Internazionale “S. Luca evangelista testimone della fede che unisce”: l’unità letteraria e teologica dell’Opera di Luca. Continua a leggere