Il 19 dicembre 1874, all’età di 21 anni (un mese dopo la discussione della sua tesi accademica per il titolo di magister), V. S. Solov’ev ottiene la cattedra di Filosofia nel ruolo di docente ordinario all’università di Mosca. Era figlio dello storico Sergej Michailovic, all’epoca rettore della stessa Università (cosa che, comunque, si dice non abbia influito direttamente sulla nomina, data l’effettiva preparazione del giovane magister).
Dopo un semestre d’insegnamento, chiede ed ottiene di recarsi a Londra per studiare presso la biblioteca del British Museum. Qui per la seconda volta ha il fenomeno mistico della visione della Sofia, come egli stesso racconta, che lo invita a recarsi in Egitto, dove in effetti si reca tra il ’75 e il ’76: qui ne avrà una terza e ultima visione.
In parte al Cairo e in parte a Sorrento, dove si ferma per una tappa al ritorno, scrive in francese un’operetta che in una lettera alla madre (4.3.76) definisce ironicamente di tipo “mistico-teosofo-filosofico-teurgico-politico”.
Quest’operetta non vedrà allora la stampa. Il manoscritto – 82 grandi fogli autografi, di difficile lettura, pieno di abbreviature, annotazioni, lacune e con cattiva numerazione – raccolto dal nipote, e che si trova attualmente negli archivi dell’università di Mosca, verrà pubblicato per la prima volta con il titolo di La Sophia nel 1978 da François Rouleau, a Losanna, nella sua lingua originale, il francese.
Aleksej P. Kozyrev, maggior studioso attuale di Solov’ev, nella sua riedizione dell’opera (1991), propone una numerazione diversa dei fogli rispetto a quella di Rouleau (riproposta dal curatore dell’edizione italiana A. Dall’Asta, che anch’io seguo, preferendola a quella di E. Treu, che segue Rouleau). In questa ristrutturazione, gli scritti composti al Cairo e a Sorrento (in forma dialogica), sono preceduti dalla parte in forma monologico-espositiva, ritenendo che sia stata composta precedentemente, sia per criteri interni, che per riferimenti alla prolusione ai corsi universitari moscoviti del gennaio 1875.
I primi tre capitoletti dell’opera (di stile monologico-espositivo), con cenni alle fonti del pensiero di Solov’ev.
I primi tre capitoletti possono essere considerati una difesa della possibilità della conoscenza metafisica, a partire dall’evidenza dell’esperienza fenomenica, salvaguardata nella sua oggettività ed esteriorità (dunque non idealisticamente prodotta).
Il superamento del livello fenomenico è dato per necessario, ad esempio, con la seguente argomentazione: realtà ed esperienza possiedono una propria intrinseca ragion d’essere, un proprio senso, che però non svelano immediatamente, creando un cosiddetto “bisogno metafisico”. Inoltre: esiste un fine, uno scopo all’attività umana, sia teoretica che pratica: sul piano conoscitivo il fine è la ricerca della verità e su quello morale la ricerca della felicità. Entrambe però (sia verità che felicità) non sono immediatamente date, riscontrabili con semplice evidenza nel piano fisico, ecco dunque il bisogno metafisico di superare la realtà immediata. Il prodotto sono tutti i sistemi filosofici e religiosi che vogliono dare all’intelligenza la verità, e all’attività pratica norme etiche.
Nemico, all’epoca, dell’atteggiamento metafisico, era l’atteggiamento scientista tipico del positivismo. Che Solov’ev attacca col metodo della “reductio ad absurdum”, cioè dall’interno della motivazione positivistica, per rovesciarla ed affermarne il contrario. Ad esempio: il bisogno metafisico è considerato una malattia dai positivisti, i quali perciò pensano che il rimedio (= i sistemi filosofici e religiosi) sia inefficace e inutile: l’umanità sarebbe perciò condannata a quella perenne frustrazione di cui egli prova drammatica esperienza. A ciò egli argomenta che “il perenne anelito” è talmente inerente e intrinseco alla natura umana, che saranno piuttosto coloro cui manca da considerarsi esseri anormali o mostri. E’ chiaro che il proprio forte e intenso bisogno metafisico lo portava a non accettare la diagnosi positivista di uomo malato e destinato a rimanere tale per sempre.
Ecco allora una prima accezione di filosofia come terapia: la visione filosofica che risponde alle più radicali domande dell’uomo, è efficace nel sanare i tormenti del suo anelito.
Nel secondo capitolo tratta di due argomentazioni antimetafisiche, una definita più corrente, volgare e un’altra propriamente filosofica. Quella volgare muove dalla constatazione che lo spirito umano è limitato e incapace di raggiungere l’essenza delle cose. Tale affermazione è confutata equiparandola a quella di chi, vedendo un bambino di pochi mesi non parlare, ne consegua che non parlerà mai.
Quanto all’argomento filosofico che prova l’impossibilità della conoscenza metafisica, viene presentato sotto tre diversi aspetti, di cui ci soffermiamo su quello che prende come punto di partenza l’oggetto che deve essere conosciuto, cioè l’essere metafisico (lettura commentata da op. cit., p. 136-139).
Nell’ambiente culturale non solo russo dell’epoca, rifiutare il positivismo e le sue radici illuministiche antimetafisiche significava fare i conti con il recupero idealista della metafisica. Volendo evitare di ricondurre tutto a Soggetto o a Ragione, Solov’ev si orienta verso Schelling (in quanto attento anche al polo oggettivo e all’irrazionale nell’Assoluto), anche perché Schelling recuperava tutta quella tradizione occultista ed esoterica che allora andava di moda in Russia, cioè, per capirci, i sogni del visionario Swedenborg, bersagliati da Kant, con tutta la sua folta schiera di predecessori e successori.
E Solov’ev cade in pieno nel fascino dell’attrazione dell’occulto: a Londra, al British Museum, infatti, ad altro non si era dedicato se non a sviscerare ed approfondire le fonti antiche e moderne della cosiddetta “filosofia occulta”, orientandosi tra la grottesca ciarlataneria in cui volentieri decadeva, per giungere a una gnosis limpida e distillata, da riproporre senza difficoltà in veste razionale utilizzando metodi e linguaggi attinti dai vari sistemi filosofici, linguaggi e metodi che egli dimostra di possedere e utilizzare con impressionante abilità. In fondo anche altri (sicuramente Schelling, forse anche lo stesso Hegel) avevano fatto così, solo che Solov’ev non ne condivide gli esiti panlogistici e i successivi rovesciamenti materialistici.
Caso mai si confronta con i pensatori di un’epoca che considera pervasa di analogo clima culturale, la tardo-antica età alessandrina immediatamente post-cristiana, e, sulla scia, ad esempio di Origene, confronta gli esiti della gnosis con la religione cristiana, affascinato anche dal fatto che questi pensatori cristiani erano pure prossimi a quella fonte originaria di sapienza dell’antichità che era l’antico Egitto. Ecco allora la verità universale, eterna, legata al passato, ma, in quanto eterna, capace di dare ancora frutti, cioè illuminante rispetto al presente e al futuro. Ecco dunque individuata la “via regia” che porta alla soddisfazione del pressante bisogno metafisico.
Tornando allo scritto La Sophia, esso contiene tutto ciò nella ribollente fase iniziale della scoperta giovanile.
Parte dialogica (e confronto con Boezio).
La parte dialogica vede come interlocutori “il Filosofo” e “Sophia”. Questa figura femminile è una specie di spirito-guida, giustificato anche razionalmente alla fine della parte monologico-espositiva precedente, e cioè fatto rientrare nel quadro metafisico di continuità tra il mondo divino trascendente e quello spirituale umano.
Il pensiero va alla figura femminile di Filosofia che consola il carcerato Boezio, figura femminile che gli appare, che egli descrive e che presenta molte caratteristiche simili alla Sophia di Solov’ev (lettura da Boezio, La consolazione della filosofia libro I). In particolare la Filosofia di Boezio, dopo averlo osservato, così diagnostica: “soffre di letargia”, la quale altro non è che dimenticanza, perdita di conoscenza, di memoria, di gnosis salvifica. E comincia la cura con i rimedi più blandi, che sono le domande volte a fargli ricordare qualcosa su di sé e sulle cose, in modo da verificare se è ancora accesa quella scintilla su cui far leva, per giungere al pieno ricordo della conoscenza dell’intero fine delle cose, nel cui oblio consiste appunto la malattia, che può essere di una gravità tale da portare alla morte. Ma la risposta alle domande più semplici dà speranza a Filosofia, che con paziente lavoro ricostruirà il filo della memoria e quindi la conoscenza e la salvezza. In particolare questo rammentare e ricordare progressivo e aiutarlo a ricollocare gli ordini di realtà al loro giusto posto, in cui consiste la stessa cura, porterà Boezio alla fine a capire che salute = bene = virtù = (che implica anche resistenza alle prove, tra cui quella cui è sottoposto = accettazione della imparziale fortuna, che non procede a caso ma secondo l’ordine stabilito e impartito da Dio, bene sommo). Salute è conoscenza, nei suoi vari gradi, fino a quello intuitivo, che permette di vedere le cose e la realtà dal punto di vista di Dio, perciò nel loro ordine.
Sembra quasi che Filosofia sia arrivata all’ultimo momento utile, ma ancora in tempo: tale privilegio è dovuto al fatto che Boezio l’aveva sempre ricercata e amata, e lei non ha abbandonato l’amante fervoroso e fedele nel momento della necessità.
Un analogo stato di sofferenza interiore si poteva forse ravvisare nella fase adolescenziale della vita di Solov’ev, che aveva rifiutato la tradizionale fede ortodossa trasmessagli dalla famiglia, dichiarandosi ateo, crisi da cui uscirà grazie ad una passione per Spinoza, cui seguirà un analogo forte interesse per Schopenhauer, in cui, per contrasto rispetto a Spinoza, trova conferma della frase del vangelo di Giovanni secondo cui tutto il mondo è male. Ricordiamo che il denominatore comune di tutte le visioni gnostiche dell’antichità era appunto dato dalla concezione negativa della realtà fisica.
Ma torniamo alla visione di Sophia.
In Solov’ev la a connotazione di Sophia è ancor più in senso mistico e religioso che in Boezio: infatti la sua prima apparizione si era verificata in contesto liturgico, durante la celebrazione della Divina Liturgia al momento dell’Inno dei Cherubini, e precisamente quando il coro canta “abbandoniamo le preoccupazioni mondane”, per essere in grado, appunto come cherubini, di passare dalla rievocazione dell’evento salvifico che si svolge qui in terra, a quello che si svolge in cielo. E’ anche il momento della chiusura delle porte regali al centro dell’iconostasi, quello in cui il mistero si infittisce e si nasconde dietro il velo della visibilità, ma non per questo è meno reale. Il fanciullo Vladimir vede invece le porte regali aprirsi, sparire la folla dei celebranti e dei fedeli e tra le nubi azzurrine dell’incenso e l’oro delle icone un volto di donna che gli sorride e che lo attrae in modo ben più prepotente dei precoci amori giovanili.
A Londra gli appare solo per invitarlo a recarsi in Egitto per incontrarla, e alla fine di una notte stellata e gelida trascorsa nel deserto (cito una narrazione poetica dell’evento da parte dello stesso Solov’ev in: Sulla Divinoumanità e altri scritti, Jaka Book 1971, p. 21):
“nel rosso porpora del cielo scintillante, / ripieni gli occhi di infuocato azzurro, / guardavi tu, come il brillar premevo / del giorno della creazione universale. / Compresi tutto d’uno sguardo solo, / immoto quel che fu, che è e che sarà … / … / Io vidi il tutto, il tutto era / un’unica persona di muliebre bellezza, / entrava a farne parte l’infinito, / davanti a me e dentro a me tu sola.”.
Sembra di capire che la visione è un’esperienza mistica di intuizione intellettiva, rispetto alla quale il dialogo è un cammino razionale volto a esplicitare il contenuto percepito in un attimo, sostenuto anche dalla forza che questa visione ha comunicato.
Il dialogo comincia con queste parole di Sophia (tra parentesi un mio commento):
“Tra l’Oriente pietrificato e l’Occidente che si decompone (entrambe degenerazioni dell’atteggiamento nei confronti della verità religiosa) perché cerchi colui che vive (citazione evangelica) tra i morti (riferimento ai sarcofagi egiziani)?” (cit. p. 162)
Il dialogo prosegue con l’obiettivo di cercare una verità vivente, da confrontare con il cristianesimo storico, nella convinzione che è solo la religione a poter assumere quel ruolo di unificazione del sapere, dell’essere e dell’agire nell’unità vivente ricercata.
Il Filosofo interroga Sophia sul principio primo di ogni sistema religioso e filosofico, ovvero sull’inizio della realtà e ancora sulla possibilità che questo sia conoscibile. Sophia gli risponde che, se è vero che la conoscenza umana è relativa e fenomenica, tuttavia i fenomeni esterni sono una manifestazione dell’essere in sé, manifestazione per un altro, grazie ad una relazione di corrispondenza. “La totalità dei fenomeni è la loro concatenazione generale o il loro ordine. … Ogni ordine presuppone un principio d’ordine. … L’ordine universale è la concatenazione dei fenomeni in relazione al principio assoluto, … che viene conosciuto non immediatamente nella sua specifica natura, ma (appunto) in relazione ai fenomeni (stessi), come il principio della loro gerarchia” (cit. p.167).
Il cammino che Sophia fa compiere al Filosofo parte dall’analisi sull’interiorità. L’esperienza interiore svela innanzitutto noi stessi come nuclei di forza o potenza o desiderio (di realizzare un certo atto, pensiero o desiderio, attualmente particolari e limitati ma potenzialmente infiniti). Dice Sofia: “Se tu sei potenza, quando agisci conservi il tuo essere, anzi lo manifesti, senza per questo diminuire in potenza”. Ugualmente agisce il principio, nel manifestarsi attraverso l’ordine universale e la concatenazione dei fenomeni.
Il soggetto eterno è anche spirito, per analogia al fatto che io percepisco come spirito il libero principio della mia realtà soggettiva individuale.
Il principio assoluto, per essere principio dell’essere, deve precedere l’essere. Il principio come forza originaria non è l’essere ma lo produce come attuazione della sua potenza.
Inoltre il principio assoluto, essendo uno, è semplice, non implicando molteplicità non richiede la relazione. Però, deve essere anche principio di pluralità, altrimenti lo si conosce per metà.
(leggere p. 169).
Come principio della pluralità il primum è amore, forza che innanzitutto permette all’unità di affermare se stessa, rispetto a qualcosa della sua natura che invece lo porta in direzione contraria. rispetto alla primaria unità divina: e questo qualcosa sarebbe il principio antidivino, che si configura come non essere ma aspirazione all’essere, appetizione o concupiscenza, il quale si impadronisce della molteplicità ideale (idee) e le sostanzializza materialmente come corpi, corpi per la sensazione, ovvero il massimo dell’esteriorità.
La vera unità positiva non fugge la pluralità ma vince su di essa tramite l’amore. Il principio assoluto non è libero se non trionfando eternamente sulla necessità di produrre l’essere esteriore. Questa vittoria si ha appunto mediante l’amore, e in ciò consiste la sua perfezione assoluta.
Il secondo principio, quello della molteplicità, sarà sempre, come il primo, potenza immediata, ma non di essere, cioè tendenza positiva, spirito, bensì potenza nel senso di desiderio dovuto a mancanza, privazione = materia, polo del principio che tende necessariamente alla cieca manifestazione esteriore e fenomenica (per i sensi), potenza passiva.
E qui si sente echeggiare tutta la tradizione mistico-esoterica, che Solov’ev utilizza anche per la teodicea Trinitaria, cui vengono ricondotte le prime tre ipostasi di Spirito, Intelletto e Anima.
L’Anima, in particolare, dotata di funzione passiva, quando pensa e vuole dedicarsi all’attività creativa propria del principio spirituale, e non accontentarsi di mantenere il suo legame con lo spirito, degenera (secondo il mito gnostico del peccato di Sophia, qui identificata piuttosto con l’anima del mondo).
La conseguenza è la nascita dell’essere parziale come molteplicità frammentata, che vuole affermarsi come potenza assoluta esclusiva in un essere parziale. E’ lo spirito antidivino, qui chiamato satana, spirito falso che può impadronirsi dell’anima del mondo e dell’anima umana per annientare la sua unità e distoglierla dal suo ruolo di centro cosciente e legame interiore tra tutti gli esseri.
Abbiamo così il caos, il disordine (campo fisico), l’odio, la malvagità (campo morale).
Sophia è l’anima del mondo in quanto vincitrice sulla disgregazione introdotta da satana , e sull’unione intellettualistica, razionalistica che il Demiurgo cerca di attuare (demiurgo = anti-intelletto, artefice di una unità formale, puramente astratta), e che, in campo morale corrisponde alla giustizia esteriore.
L’unità ricostruita da Sophia è fondata sull’amore, su quell’amore proveniente dallo Spirito divino che riunifica il frammentato mondo fenomenico alla luce del principio positivo divino.
Lo stadio finale e lo scopo del processo universale è la riunificazione completa dei due mondi, la libera sottomissione del mondo materiale a quello spirituale. Tramite la figura mediatrice di Sofia, anima spirituale del mondo, la materia diventa il corpo dell’organismo perfetto, da attuarsi tramite l’amore, vincitore sulla disgregazione del bellum omnium contra omnes e sull’ordine di tipo intellettualistico, astratto, sterile, fondato sulla giustizia esteriore, instaurato dal Demiurgo. Sophia è anche figura di quell’organismo sociale perfetto (=la Chiesa), in cui l’unità interiore è data dalla libera sottomissione al Logos-Cristo. Le anime sono la materia del suo corpo.
La sofferenza è la conseguenza dei limiti di un essere parziale, è lo stato di separazione delle anime, e di ogni singola anima, nel mondo materiale. Di conseguenza ogni essere parziale ottiene vera potenza e felicità solo nell’abnegazione, negandosi: affermandosi infatti si afferma solo come parziale =determinato da altro = schiavo della necessità esteriore.
Ma quando l’essere parziale si rinnega e si sottomette al tutto come suo membro, perde la sua parzialità esclusiva: in ciò consiste la guarigione, gode della vita del tutto, e poiché il suo essere membro del tutto è in accordo con la sua volontà, si sente libero, non soffre. Libertà e felicità per l’essere parziale consistono nella sua sottomissione volontaria all’essere universale.
La differenza rispetto allo stato iniziale è che allora la sottomissione non era voluta liberamente, frutto di una scelta. La sottomissione deve essere la negazione della negazione.
L’anima è principio di unità finchè è passiva, resta passivamente sottomessa al mondo ideale e spirituale: levandosi contro esso e separandosene infatti, come abbiamo visto, diventa principio dell’essere parziale ed esclusivo, della divisione, dell’odio e della lotta.
Il legame che connette l’essere parziale con il tutto è quello amoroso: meno un essere è limitato, più è collegato al tutto tramite il legame amoroso, e meno soffre. Più gli esseri sono lontani dalla perfezione divina, minore è il carattere universale del loro amore naturale e viceversa. Naturalmente si deve parlare di un amore completo e perfetto, che includa le due direzioni: quello ascendente, verso un essere spirituale superiore che è necessariamente unico e sessualmente complementare (v. Sophia), e quello discendente, inferiore, particolare.
Quando si ama un essere superiore si ricevono, per comunicazione libera interiore, i principi della sua vita spirituale, partecipando in tal modo alla sua vita, e alla vita divina.
Nelle pagine successive l’autore traccia la bozza di una cosmogonia evolutiva, nella sua dinamica disgregativa e ricompositiva, contrassegnata in particolare da quell’evento centrale che inverte la rotta discendente e che consiste nell’intervento salvifico di Dio nella storia tramite l’incarnazione del Logos, presupposto e condizione della possibilità di ripercorrere il cammino inverso e quindi giungere alla salvezza, di cui è prefigurazione e tipo la vergine Madre di Dio.
Ma ormai il dialogo è diventato il monologo di Sophia.
(fine della presentazione dello scritto La Sophia).
Brevi cenni sugli sviluppi del pensiero e della vita di Solov’ev.
La visione d’insieme esposta in questo scritto giovanile ispira la successiva attività teoretica di Solov’ev, il cui “sistema” si può dire che fu meglio esposto in quelle dodici Lezioni sulla teandria che tenne a Pietroburgo nel 1877, cui partecipò l’intellighentia dell’epoca, tra cui Dostoevskij, che ne rimase affascinato e ne fece propria integralmente la filosofia. Sarà inoltre l’ispiratrice dell’attività pratica di Solov’ev, che abbandonato presto l’insegnamento universitario, si dedicherà all’attività di animatore culturale della politica, della religione e comunque della cultura russa, con intensa attività pubblicistica, allo scopo di costruire quel corpo sociale perfetto in una teocrazia storica. In questo quadro è da collocare anche la sua discussa adesione al cattolicesimo, e l’apologia del ruolo storico della chiesa cattolica, pur senza mai rinnegare l’appartenenza all’ortodossia.
Le immancabili clamorose delusioni lo portarono, negli ultimi anni della sua vita, a rinchiudersi in un oscuro pessimismo, per poi recuperare la sua giovanile visione del mondo, ma ad un livello diremmo cosi metastorico ed escatologico, rilanciando cioè alla fine dei tempi il raggiungimento degli obiettivi ideali da lui intravisti, andando così a confluire nelle prospettive millenaristiche di cui pur aveva trovato traccia bazzicando nelle trame sotterranee della storia. Nei “Tre dialoghi e breve racconto sull’anticristo”, con la preveggenza tipica forse di chi è vicino alla morte (1900), cerca di sollevare il velo della storia per sbirciare nel XX e nel XXI secolo, il primo che vede attraversato da violenti avvenimenti totalizzanti, il secondo caratterizzato politicamente dal raggiungimento del regno dell’anticristo, che è colui che assopendo nel benessere materiale i bisogni anche metafisico-religiosi della massa, ne arriverà al controllo globale, con l’esclusione di pochissimi rappresentanti delle tre confessioni religiose cristiane che ne subiranno le persecuzioni, ma che si accingeranno anche a risorgere per andare incontro al Cristo glorioso della seconda venuta, riconosciuto come messia prima di tutti dagli Ebrei e indicato come sposo eterno dalla Santa Sofia, questa volta identificata con la donna vestita di sole dell’Apocalisse.
Sul pensiero religioso, filosofico e politico di Solov’ev, nonché sulle traduzioni dei classici antichi dal lui realizzate (per esempio tutti i dialoghi di Platone), sulle voci per l’enciclopedia filosofica che avrà ampia diffusione in Russia, si formerà tutta quella fervida intellighenzia che costituì la rinascita culturale russa del primo Novecento, spazzata via dalla rivoluzione sovietica, che costrinse alcuni ad emigrare, altri a consumarsi nei gulag. Qualcuno provò anche a sopravvivere, camuffandosi dietro il linguaggio sovietese della cultura ufficiale. Altri ancora videro nel comunismo sovietico la realizzazione del messianismo cui aveva dato espressione lo stesso Solov’ev.
Con Solov’ev e i suoi più o meno diretti discepoli, il pensiero filosofico e religioso russo attuale cerca con fatica di confrontarsi, come per riannodare un filo violentemente strappato, innanzitutto andando la leggerne per la prima volta le opere, per riprendere poi quanto di specifico dello spirito russo Solov’ev aveva saputo tematizzare, e anche per additare alla Russia il ruolo storico proprio della sua identità nazionale.
Ermeneutica del simbolo
Artisticamente “Santa Sofia” è la denominazione di un soggetto iconografico molto noto e molto amato in Russia. Rappresenta una angelica figura femminile di color rosso infuocato, vestita regalmente, seduta su un trono, collocata al centro di una serie concentrica si sfere celesti. Ai lati due suoi discepoli: la Madre di Dio e s. Giovanni Battista. Sopra, il Cristo-Logos e ancora sopra la volta celeste con angeli e al centro un trono dove non siede nessuno, ma dove sono collocati un libro e una croce.
Non si conosce l’origine di tale composizione iconografica, né il suo significato preciso, che comunque si collega al culto bizantino di S. Sofia (in cui onore Giustiniano fece erigere l’omonima cattedrale) e della Sapienza divina, già testimoniata nell’Antico testamento. Qui viene anche considerata come una realtà ipostatica, che ha partecipato con Dio alla fondazione del mondo, infondendovi ordine, peso e misura, ma anche gioco e ilarità. In Russia la vittoria del cristianesimo sul paganesimo venne identificata con la vittoria della Santa Sofia, cui venne dedicata la Cattedrale di Kiev. Le cronache della sua costruzione(1032) introducono un parallelismo tra Jaroslav, Giustiniano e Salomone, come costruttori di un Tempio alla Sapienza divina.
Per il messianismo slavofilo di Otto e Novecento, la Russia continua ad essere considerata ancora luogo privilegiato di manifestazione della S. Sofia (se non la sua stessa incarnazione storica), dunque luogo in cui avverrà, anche storicamente, la riconciliazione tra mondo trascendente e mondo immanente, alla fine dei tempi.
Secondo una prospettiva filosofica e religiosa che presuppone l’ontologia della scissione, la separazione, il dualismo radicale tra i due mondi trascendente e immanente, la perfezione del primo e la negatività del secondo, Sofia può essere interpretata come soluzione mitico-simbolica per indicare la sostanzialità della mediazione, e per spiegarne il salto in termini di caduta.
In una prospettiva univocista di tipo mistico, è la figura simbolica che rende contemplabili alcune strutture e dinamiche che regolano il rapporto tra Dio e il mondo, evitando però il panteismo sia soggettivistico che naturalistico, è la figura simbolica (ricordiamo il significato platonico del simbolo, cioè il ricomporre l’unità delle due parti di tessera spezzata, identificabili con i due mondi) che rende reale il rapporto di partecipazione, che rende comunicabile l’energia e la grazia divine, su cui si fonda la possibilità di risalita, cioè di salvezza.
I Padri della Chiesa (Atanasio, Basilio) affrontarono il tema della Sapienza divina in un’ottica di questo tipo, cioè della continuità tra i due mondi (secondo la teologia mistica codificata da Dionigi Areopagita) sollecitati anche dallo scritto cristiano di grande successo nei primi secoli “Il Pastore di Erma”, in cui il protagonista riceve messaggi da una figura femminile che gli appare. Solo che dovettero fare i conti con la femminilità della Sapienza e l’attribuzione paolina che indica Cristo come Sapienza di Dio. Infatti Atanasio distinse tra una sapienza creatrice, (attiva =Logos=Cristo)) e una sapienza creata (passiva=Sophia), che da ideale si concretizza , per diventare traccia di Dio nella creazione.
Secondo il filone sofianico della riflessione ortodossa russa del Novecento (Berdiaev, Averincev) la sapienza di Dio reggitrice del Cosmo e della Storia, è rivelata, sì, ma soprattutto ancora misteriosa e nascosta, custodita dal fascino di una tradizione criptica cui è più affine il linguaggio dell’esoterico, o al massimo quello dell’arte. Rispetto ad essa, l’approccio razionalistico (anche in campo teologico) tende a mantenere la separazione col trascendente, a identificare il trascendente con l’astratto, slegato dalla realtà, a considerare ogni visione realistica della trascendenza come una pagana, magico-superstiziosa ingenuità.
Il luogo del confine tra immanente e trascendente, abitato dal Guardino della soglia tra i due mondi, naturale e soprannaturale, visibile e invisibile è invero frequentato, oltre che dalle mistiche cristiane, anche dalle mistiche pagane, ebraiche e anche islamiche: ricordiamo le cosmogonie gnostiche, la Scala di Giacobbe, la Shekinah o Gloria divina, non conosco direttamente il campo islamico, mentre, per tornare nell’ambito della teologia bizantina, trovo significativa la teoria esicasta delle energie divine nella teologia di S. Gregorio Palamas, (XIV sec.), le quali permeano la creazione, permangono in essa, e rendono possibile la trasfigurazione spirituale dell’uomo (deificazione) e del creato.
Dal punto di vista gnoseologico, la Sapienza è unità del sapere in profondità, a livello di sorgente viva, fonte nativa ribollente, nella cui scoperta e valorizzazione sta il tratto peculiare del pensiero filosofico russo ad es. di P. Florenskij, che si propone la ricomprensione dell’idealismo realistico di tipo platonico a partire alle sue sorgenti vitali, alle quali la coscienza attinge il senso unitario dell’essere.
L’approccio illuministico e positivistico alla conoscenza, tipico invece del razionalismo della nostra modernità occidentale, considera pericoloso il ricorso al mito, per la sua ambiguità, perché equivale ad abbandonare il campo della razionalità e incappare nelle trappole del pregiudizio, dell’ignoranza, della menzogna, della falsità ottenebrante, e tutt’al più finalizzata al controllo delle masse (Roland Barthes, U. Eco).
(Ma questo ci rimanda all’antica tematica del rapporto mithos-logos )
Ma un altro percorso dell’ermeneutica novecentesca del mito è quella percorsa ad es. da Mircea Eliade, Jung, che lo considerano archetipo universale dell’inconscio individuale o collettivo, potente catalizzatore di funzioni, esigenze, bisogni propriamente umani, dunque di forte valore antropologico. Jung fu affascinato e studiò approfonditamente tutto il serbatoio di miti offerto dalla filosofia occulta. Occupandosi del Pastore di Erma, afferma che la donna che appare a Erma (avvicinabile alla Filosofia di Boezio e alla Sofia di Solov’ev), è il frutto del passaggio dal culto della donna a quello dell’anima nell’antichità.
Seguace di Bachelard nell’analisi razionale dei miti, allo scopo di guadagnarne alla filosofia e alla scienza le intuizioni metarazionali, J. J. Wunenburgher, che si è interessato anche alle visioni di Solov’ev, afferma che questo tipo di immagine (la Sofia) gioca un ruolo anagogico che rinvia lo sguardo dalla copia al modello, dal basso all’alto, ma anche dalla superficie alla profondità (cfr. analisi del profondo junghiana), rendendo possibile il ritorno della creatura verso la sua sorgente di vita e di salvezza, in un processo di deificazione, cioè reintegrazione alla vita perfetta, che è appunto quello terapeutico di guarigione[2].
Annarosa Ambrosi
Padova 14/3/2002
(Relazione di Annarosa Ambrosi per la serie di incontri sul tema: “Filosofia come terapia” – Padova – Liceo classico Tito Livio – marzo 2002)
[1] Fonti bio-bibliografiche in: A. DELL’ASTA, Introduzione a La conoscenza integrale di V. S. SOLOV’EV, La casa di Matriona, 1998. Da tale testo sono tratte anche le successive citazioni dell’opera La Sophia (ivi contenuta) di SOLOV’EV.
[2] AA.VV., Dalla Sofia al New Age, Lipa 1995, p. 95ss.