Le icone sono un ponte tra il divino e la dimensione umana
«Come la lettura dei libri materiali permette di far comprendere la parola vivente del Signore, così l’ostensione di un’icona dipinta permette, a quelli che la contemplano, di accostarsi ai misteri della salvezza mediante la vista. Ciò che da una parte è espresso dall’inchiostro e dalla carta, dall’altra, nell’icona, è espresso dai diversi colori e da altri materiali», sottolineava Giovanni Paolo II nella lettera apostolica in occasione del XII centenario del concilio di Nicea.
Il mondo dell’icona è il mondo umano trasfigurato, o quello divino reso visibile: uno sguardo sintetico su entrambi questi punti di vista è dato dalla prospettiva escatologica, una “sfida” che l’icona accetta di mostrare. Una “sfida” che Annarosa Ambrosi, iconografa, ha intrapreso da tempo.«Sono interessata alla ricerca della verità – racconta –. In ogni icona che realizzo cerco di capire come il contenuto di verità, che si cerca di enucleare dalla dottrina dei Padri e dalla tradizione della Chiesa, sia efficace nel trasmettere la fede anche ai giorni nostri». Docente di storia e filosofa, e di ebraico biblico, dalla fine degli anni Settanta ha coltivato e approfondito la conoscenza della cultura religiosa russa, dedicandosi successivamente alla realizzazione delle icone.
L’iconografia è un’arte che appartiene alla Chiesa. Un iconografo non deve “scivolare” nell’ambito dell’arte per l’arte che rinvia solo al suo autore. Ma, per un artista, come è possibile tutto questo?
«Realizzare un’icona significa obbedire a quello che è il contenuto di verità della Chiesa, della Scrittura, dei Padri. Per un artista può essere difficile sacrificare il proprio ego, la tendenza all’autoaffermazione per sottostare a queste regole. Ma l’individualità spunta comunque, perché una mia icona sarà diversa da quella fatta da un altro. Non c’è pericolo di non essere riconoscibili, il pericolo è piuttosto di interpretare in modo soggettivo il contenuto di verità e non rendere più quel servizio liturgico che l’iconografia invece richiede».
Il linguaggio delle icone non sempre è di facile interpretazione. Perché?
«Il linguaggio è simbolico e talvolta viene considerato una cosa del passato, come qualcosa che imprigiona troppo la libertà e l’espressione dell’artista e la sua creatività. Invece il linguaggio simbolico funziona, lo troviamo in molti ambiti del nostro tempo, ad esempio nella pubblicità che usa il linguaggio simbolico dei colori, delle forme, delle immagini. Nell’icona non vi è un simbolismo astratto, ma un realismo simbolico. Una madre con il suo bambino rappresenta, a livello archetipico, la “madre” con il suo “bambino”, diventa il prototipo di ogni maternità che, dogmaticamente, si identifica con Maria-Chiesa-madre-generatrice della fede e colei che genera alla vita il Cristo, e in lui la vita di ogni cristiano. Attraverso il simbolo, il colore, la forma, l’icona riesce a cogliere l’essenza di un messaggio universale».
Come viene rappresentato il Natale nelle icone?
«La scena della natività è molto diversa da quella espressa dal presepe di san Francesco, che ha portato la dimensione più gioiosa di questo momento liturgico. Nell’icona viene rappresentata la montagna che si apre per accogliere il Cristo. Il Bambino, avvolto in fasce, è deposto nella mangiatoia, un luogo che somiglia al sepolcro. L’icona ci porta verso la teologia dell’incarnazione, ci spiega che Cristo è venuto sulla terra per morire e per redimere l’umanità immersa nella lotta contro il male».
L’arte visiva è stata sempre presente fin dalle origini della fede cristiana per evocare, nella logica del segno, il mistero rappresentato. Ma qual è il messaggio di una icona, qual è la sua importanza?
«Nell’icona vi è un messaggio di fede. Un contenuto forte che ci invita a una fede profonda, che ci fa sentire la vicinanza del mondo divino, spirituale, dei personaggi rappresentati nell’icona. L’icona ha una capacità di trasmettere il contenuto di fede. Questo mi incoraggia a proseguire nel mio cammino, a ricercare anche una qualità maggiore dell’immagine, è un percorso entusiasmante».
Nelle icone qual è il rapporto con la Scrittura?
«Ciò che nella Scrittura si legge, qui si contempla. Ciò che nella Scrittura si coglie attraverso la parola, nell’icona deve essere colto con lo sguardo, attraverso le forme, i colori. Questo è il rapporto Scrittura-icona. Origene diceva che si può leggere e comprendere la Scrittura su tre livelli: materiale, morale e spirituale. Nell’icona troviamo un po’ gli stessi significati: uno materiale, che possono cogliere anche quanti non si intendono di arte e religione: uno morale e uno spirituale, che fa cogliere ad esempio la verginità di Maria, la maternità spirituale».
Quanto è importante il confronto con i grandi maestri del passato?
«È importante per capire chi, prima di te, è riuscito a trasmettere un determinato messaggio. Penso alla Trinità di Andrej Rublev, considerata il massimo esempio tra le icone rappresentanti l’episodio biblico dell’ospitalità di Abramo: è bella ed efficace perché il linguaggio simbolico ha dato il meglio di sé. Guardare ai grandi maestri mi aiuta a capire come le loro opere siano riuscite a creare un ponte tra la nostra dimensione e quella del mondo spirituale che l’icona vuole rappresentare. L’icona è un’arte ecclesiale, dipingerla è rendere un servizio nei confronti della Chiesa».
E frequentare la scuola iconografica?
«Frequentare la scuola ti permette di entrare nel vivo della tradizione. Quella delle icone non è un’arte individuale, soggettiva, dove ognuno esprime se stesso, ma ognuno si inserisce nella vita della Chiesa, vive la Parola attraverso la lettura più spirituale che materiale e letterale, e attraverso il possesso della tecnica e l’esperienza del maestro che ti corregge, ti insegna ad armonizzare i colori, a eseguire correttamente le linee. La ricerca del divino non è individuale ma si fa insieme con gli altri. Dentro l’icona io sento la vita del passato. Talvolta mi capita di fare una sbavatura e guardando l’originale del maestro mi rendo conto che anche lui ha fatto lo stesso errore. Questa è un’esperienza straordinaria. Guardare al passato non è un atto passivo, ma aiuta a farmi sentire inserita in questa vita, dove si riesce a comunicare all’uomo d’oggi quello che un maestro ha comunicato nella sua epoca. Il mio non è un intento archeologico, io desidero comunicare e dialogare con le persone del mio tempo».
Elena Vascon
da “la Difesa del popolo” del 23 dicembre 2010, intervista ad Annarosa Ambrosi