“La relazione tra Parola di Dio e cultura ha trovato espressione in opere di diversi ambiti, in particolare nel mondo dell’arte. Per questo la grande tradizione dell’Oriente e dell’Occidente ha sempre stimato le manifestazioni artistiche ispirate alla sacra Scrittura, quali ad esempio le arti figurative e l’architettura, la letteratura e la musica. Penso anche all’antico linguaggio espresso dalle icone che dalla tradizione orientale si sta diffondendo in tutto il mondo”.
Archivi categoria: l’immagine sacra nella Chiesa
L’Officina dei Santi
L’Officina dei Santi
G. Mezzalira – E. Bertaboni – G. Matta – A. Ambrosi
Il desiderio di vedere finalmente realizzato un programma iconografico completo a servizio dello spazio liturgico ha spinto alcuni pittori della Scuola di Iconografia dell’Abbazia di Maguzzano a progettare e concretizzare, di propria iniziativa, una pittura murale pensandola come esempio e corredandola di approfondite riflessioni e contestualizzazioni nella realtà litugrigca odierna tristemente aniconica e senza forma. Continua a leggere
Verbum Domini – esortazione apostolica postsinodale del Santo Padre
Incontri di riflessione sulla Teologia dell’Icona
Ciclo di incontri tenutisi nell’ambito delle attività della scuola di Iconografia San Luca.
docente: Annarosa Ambrosi
- Collegamenti con il pensiero antico non cristiano.
- Il pensiero cristiano.
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- Collegamenti con il pensiero antico non cristiano.
Obiettivo del presente ciclo di tre incontri: individuare i fondamenti teorici dell’efficacia dell’icona nel trasmettere il sacro, sia nel passato come ai nostri giorni.
In particolare individuare quei riferimenti teorici cui fa riferimento la definizione del Concilio Niceno II (878) secondo cui “le cose rinviano l’una all’altra in ciò che raffigurano come in ciò che senza ambiguità esse significano” (da: MENOZZI, La Chiesa e le immagini, ed. s. Paolo 1995, p.102).
Posizione del problema Continua a leggere
Duodecimum Saeculum
LETTERA APOSTOLICA
DUODECIMUM SAECULUM
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO PP. II
ALL’EPISCOPATO DELLA CHIESA CATTOLICA
PER IL XII CENTENARIO
DEL II CONCILIO DI NICEA
Venerabili fratelli, salute e benedizione apostolica!
1. Il dodicesimo centenario del II Concilio di Nicea (787) è stato l’oggetto di molte commemorazioni ecclesiali ed accademiche. La stessa Santa Sede vi si è associata (cf. “L’Osservatore Romano”, 12–13 ottobre 1987). L’avvenimento è stato parimenti celebrato con la pubblicazione di un’Enciclica di Sua Santità il Patriarca di Costantinopoli e del Santo Sinodo, iniziativa che sottolinea quanto siano ancora attuali l’importanza teologica e la portata ecumenica del settimo ed ultimo Concilio pienamente riconosciuto dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa. Continua a leggere
La figura e l’opera di P. Sergej N. Bulgakov
“Grandi compiti … attendono la Chiesa russa che deve di nuovo consacrare il genio russo. Tuttavia ritengo che per questo essa debba superare anche il proprio isolamento e sentire vivamente la divisione delle Chiese come una ferita nel corpo vivo della Chiesa”
Dal Profondo, 1918, Jaka Book 1971
L’attualità del messaggio di Pavel Florenskij
Il convegno si è tenuto a Padova il 13 aprile 2002 presso la Sala del Presbyterium ed è stato curato dal Centro Vladimir Solov’ëv in collavorazione con il Centro Dehoniano “Presbyterium” di Padova.
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“Non dimenticatemi” è il titolo della traduzione italiana della raccolta di lettere che Pavel Vaslievič Florenskij scrisse ai familiari dal lager staliniano delle isole Solovki in cui venne ucciso. Ritorno al nome dimenticato è il titolo assegnato dalla Fondazione Sovietica della Cultura nel 1989 alla prima mostra dedicata a questa gigantesca figura di intellettuale russo. Il suo nome e la sua opera erano destinati all’oblio per suprema decisione della barbarie e del terrore instaurati da Stalin, ma come la roccia non riesce mai a soffocare completamente la tenacità dell’umile raponzolo che improvvisamente prorompe dalle sue crepe e dona all’alpinista la magnificenza della sua bellezza così l’opera di Pavel Florenskij non poteva che riaffiorare e arricchire il consorzio umano e ciò prima ancora che si sfaldasse definitivamente quell’impero del male che ne aveva condannato l’autore.
È perciò con una certa emozione che oggi noi pensiamo di aggiungere il nostro piccolo contributo alla conoscenza della figura e dell’opera di padre Pavel con questo breve simposio, forse sarebbe più giusto chiamarlo seminario, che è stato voluto fortemente sia dal centro culturale padre Dehon, come ha ricordato adesso padre Pietro, sia dal centro ecumenico Vladimir Solov’ëv ed è perciò a nome degli amici del centro Solov ’ëv, che io qui rappresento, che porgo il cordiale benvenuto a tutti i partecipanti, che desidero finora ringraziare quanti hanno vuoto contribuire all’organizzazione del convegno oppure anche offrirci il loro sostegno morale e talvolta anche finanziario. In particolare ringrazio i padri dehoniani per la fraterna ospitalità che sempre ci danno, ringrazio …
La mia riconoscenza va poi soprattutto ai relatori che certamente sapranno Illuminarci e spero anche contagiarci nell’entusiasmante percorso della scoperta della personalità complessa ma affascinante di Pavel Florenskij.
Questo convegno segna anche la seconda tappa di un cammino. Un cammino che abbiamo iniziato lo scorso anno con il simposio sulla figura e l’opera di Vladimir Sergej Solov’ëv, un cammino diretto a scoprire e a riversare in occidente l’immensa ricchezza di pensiero di un manipolo di russi vissuti tra la fine del XX secolo e la prima metà del XI accanto a Vladimir Solov ’ëv oggi poniamo Pavel Florenskij; ma stiamo già pensando domani per esempio a Sergej Bulgakov, forse a Dostoevskij … forse a qualcun altro.
Uomini eccezionali, uomini problematici e anche emblematici, di frontiera, uomini che molto possono dire alla nostra cultura occidentale forse ancor troppo ancorata a schemi razionali e positivisti e poco aperta al simbolismo, all’idea della sofia, alla dimensione del mistero e della bellezza, alla filosofia trinitaria. Uomini poco capiti e talora contrastati in patria, russi sì ma non riconducibili entro schemi solo slavofili, perché capaci di parlare un linguaggio universale e di porsi in dialogo con la nostra cultura occidentale. Ci siamo però resi conto che il dialogo con l’occidente di questi giganti del pensiero rischia spesso di restare confinato entro pochi circoli intellettuali elitari. I loro nomi, le loro opere sono infatti poco conosciute e ciò non solo tra la massa ma anche tra gli stessi credenti che vivono con impegno la propria fede.
Eppure la loro statura è grande anche nel cammino ecumenico di cui si possono spesso considerare degli autentici antesignani.
Ci siamo perciò fatto carico di divulgare il loro pensiero e siamo grati ai presenti per aver accolto questo invito consentendoci di aggiungere il nome di Padova anche a quello di Bergamo, di Bologna, di Milano, di Roma e di poche altre città che ci hanno preceduto in iniziative analoghe.
Certo una figura eclettica e gigantesca come quella di Pavel Florenskij può essere solo sfiorata in un seminario di poche ore. Per questo abbiamo scelto volutamente la strada di approfondire solo alcune tematiche, lasciandone in ombra altre e ciò per evitare la tentazione di un’esaustività che sarebbe stata solo apparente, perché avrebbe presto rivelato tutta la sua incapacità di lavorare in profondità, di trasmettere pochi messaggi ma di grande spessore.
Qualcuno ci ha anche cordialmente rimproverato, ad esempio, di aver trascurato in questo seminario la figura di Florenskij scienziato, la figura di Florenskij ingegnere proprio nell’ottica che ho ricordato poco fa, noi abbiamo privilegiato innanzitutto la conoscenza dell’uomo Florenskij ….
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Considerando la necessità di una scelta, certo opinabile, rispetto all’ambiziosa idea di presentare tutto Florenskij, tuttavia in linea con il metodo che lo stesso Florenskij ci suggerisce in una delle sue ultime lettere dal Lager di Solovki, quella al figlio Kirill, quella del 21 febbraio 1937 laddove si chiede:
“Che cosa ho fatto io per tutta la vita?” e così si risponde:” Ho contemplato il mondo come un insieme, come un quadro e una realtà unica, ma in ogni istante o, più precisamente, in ogni fase della mia vita, da un determinato angolo di osservazione. Ho esaminato i rapporti universali in un certo spaccato del mondo, seguendo una determinata direzione, in un determinato piano, e ho cercato di comprendere la struttura del mondo a partire da quella sua caratteristica, di cui mi occupavo in quella fase. I piani di questo spaccato mutano, tuttavia un piano non annulla l’altro, ma lo arricchiva, cambiando: ossia con una continua dialettica del pensiero (il cambio dei piani in esame, con la costante dell’orientamento verso il mondo come un insieme)”.
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Chi è Pavel Florenskij? Pavel Aleksandrovič Florenskij era figlio di un ingegnere delle ferrovie. Nacque il 9 gennaio 1882 in una famiglia mista russo-armena a Evlach nell’Azerbaigian, nel Caucaso.
Dopo aver studiato matematica e filosofia all’Università di Mosca, a 22 anni si laureò in matematica nel 1904. Rifiutò una borsa di studio all’università per il dottorato in matematica e il 4 settembre dello stesso anno venne accolto, senza esame d’ammissione, perché era già molto bravo, all’Accademia ecclesiastica che si trovava allora, come anche oggi, a Sergiev Posad villaggio presso il Monastero della Trinità e di S. Sergio, a circa 70 Km da Mosca. Da allora fino all’arresto avvenuto nel 1933 risiedette in questa località anche quando era costretto a lavorare a Mosca.
L’intelligenza eccezionale e la straordinaria versatilità gli assicurarono nel 1907, ancor prima di aver conseguito la licenza in teologia 1908, la cattedra di professore di storia e della filosofia.
Florenskij manterrà questo insegnamento fino alla soppressione dell’accademia 1917.
Nel 1010 si sposò con Anna Michajlovna Giacintova, che è morta nel 1973 ed ebbe cinque figli.
Il 23 aprile 1911 venne ordinato diacono e il giorno seguente sacerdote. Nel 1012 fu nominato direttore responsabile della rivista mensile dell’Accademia “Bogoslovkij Vestnik” Messaggero Teologico, in cui fino al 1937 pubblicò veri e interessantissimi saggi filosofici, teologici e matematici miranti ad una riconciliazione tra religione e scienza, tra fede e ragione, tra ortodossia e cultura.
Nel 1914 ottenne il dottorato in teologia presentando come dissertazione la sua Tesi di Laurea: “O duchovnoj Istine”, La verità spirituale nel 1912, sviluppata e approfondita, che venne pubblicata poi con il titolo: La colonna e il fondamento della verità, “Stolp i utverždenie Istiny” pubblicato nel 1914.
Durante la rivoluzione bolscevica, poiché l’Accademia di teologia venne chiusa lavorò all’Istituto di Fisica a Mosca; quindi fu deportato in un campo di concentramento nel Turkestan. Poiché era un matematico geniale e un inventore, nel 1927 infatti, inventò un olio lubrificante per macchine non coagulante, antigelo chiamato dai bolscevichi dekanite in onore del decimo anniversario della rivoluzione sovietica. Venne liberato e nominato membro del Comitato per l’edificazione della Russia sovietica Glavelektro.
Negli anni della Nep 1921-1927, cioè una nuova politica economica. Insegnò all’Istituto di Studi superiori statali Tecnico-Artistici e qui la sua attività fu molto intensa. Si dedicò alle sperimentazioni didattiche, insegnò teoria della prospettiva a Mosca, lavorò quale ingegnere nella fabbrica Karbolit, si occupò della teoria della relatività e dei quanti.
Nel 1827 iniziò a collaborare alla redazione dell’Enciclopedia tecnica ma nel 1921 dovette interrompere questa e anche tutte le altre attività.
Il suo ultimo articolo su “Fisica al servizio della Matematica” comparve nel 1932 e praticamente fu l’ultimo articolo che egli scrisse.
Rifiutò sempre di rinunciare alla sua fede e al suo sacerdozio. Anzi insistette a portare la sua croce pettorale di sacerdote e di indossare la talare nelle funzioni ufficiali; anche agli incontri accademici e scientifici si presentava sempre in abito talare. Alla fine era inevitabile che fosse colpito dalle purghe staliniste, naturalmente accusato di attività controrivoluzionaria.
Arrestato nel 1933 fu nuovamente deportato prima a Solovki, un’isola del mare del Nord, e poi in Siberia. L’8 dicembre del 1937 in un luogo rimasto sconosciuto, presso Leningrado, all’età di 55 anni venne fucilato. La notizia della sua morte si ebbe soltanto nel 1939.
La chiesa ortodossa si appresta a canonizzarlo tra i martiri del XX secolo.
Nel 1956, dopo la morte di Stalin ebbe una riabilitazione postuma per cui alcuni dei suoi scritti vennero pubblicati non soltanto all’estero ma anche nell’Unione Sovietica sia nelle riviste statali sia nelle pubblicazioni del Patriarcato di Mosca.
Florenskij fu un uomo eccezionale, oltre che scrittore fecondissimo e originale.
Ecco come lo descrive Nikolaj Lossky : poeta simbolista, astronomo di talento, sostenitore di una concezione deocentrica del mondo, matematico eminente, autore di Finzioni nella geometria, e di una serie di studi matematici, fisico autore della Teoria dei dielettrici, un libro che fa ancora autorità, come diceva Lossky, critico d’arte, autore di numerose monografie e soprattutto di un opera sulla scultura in legno, di queste opere noi conosciamo molto poco, notevole ingegnere elettrico che occupò uno dei posti più importanti nella Commissione per l’elettrificazione, professore di pittura in prospettiva alla scuola di Belle Arti di Mosca, musicista dotato, fine conoscitore e ammiratore di Johann Sebastian Bach e della musica polifonica, di Beethoven e dei contemporanei, poliglotta conosceva a perfezione il greco e il latino e la maggior parte delle lingue europee come pure gli idiomi del Caucaso, dell’Iran e dell’India.
E’ stato per questo, più volte, paragonato a Leonardo da Vinci o a Blaise Pascal per la sua intelligenza straordinaria di grandissimo studioso in grado di unire le più alte speculazioni metafisiche quali la matematica e l’ingegneria, la storia dell’arte e la letteratura.
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Vediamo un po’ le opere di Florenskij.
Come ho già detto Florenskij fu uno scrittore fecondissimo e originalissimo quindi non è possibile neppure elencare tutte le sue opere. Ne cito alcune tra le più principali, alcune delle quali sono state tradotte anche in italiano e che potete trovare nel banchetto laggiù in fondo:
I simboli dell’infinito oppure I tipi di crescita , questo libro interessante perché è uno studio antropologico dove Florenskij descrive sotto forma di circolo, sentite la matematica e la geometria, la possibilità soggettive in cui si scrive il destino di ogni uomo.
Tra le opere scientifiche che toccano anche l’epistemologia, la gnoseologia vanno ricordate: La descrizione simbolica del 1922, Il numero come forma; Lo spazio, la massa e il medio.
Molto ancora interessanti, e queste le cito solo perché sono solo in russo Il limite della gnoseologia, Smysl idealizma: Il significato dell’idealismo; anche questo è interessante sono Le antinomie cosmologiche di Emanuel Kant ; Superstizione e miracolo.
In questo articolo l’autore, …
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In italiano sono state tradotte ancora alcune opere che vi accenno.
Una interessantissima è proprio un saggio sull’icona Ikonostas che è stata tradotta da Adelphi nel 1977 con “Le porte regali” .questo saggio è la prima traduzione mondiale di un testo di Pavel Florenskij.
Per Florenskij l’icona presuppone una metafisica dell’immagine e della luce e un nesso strettissimo con la liturgia della Chiesa Orientale. Solo con queste precomprensioni, incompatibili con la concezione della pittura dominante in Occidente dal Rinascimento in poi, si possono varcare le porte regali dell’iconostasi, che è il confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile, luogo dove si manifesta una pittura sublime, quasi mistica in cui le cose, sono prodotti della luce.
Ma l’opera che lo ha reso famoso rimane … “La colonna e il fondamento della verità”
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Come ho già detto questa tesi era già apparsa nel 1912 con il titolo “O duchovnoj Istine”, La verità spirituale. Il titolo è chiaramente ispirato a S. Paolo 1 Tim 3,15.
L’opera ebbe grandissimo successo e convertì alla fede ortodossa nel 1918 il filosofo Nikolaj Lossky. Ben presto divenne introvabile. Nel 1929 a Berlino un gruppo di amici di Florenskij ne curò una edizione fototipica in un numero limitatissimo di copie e non commerciabili. In italiano è stata tradotta da Pietro Modesto per la Rusconi editore eseguita sulla edizione berlinese ed è stata tradotta nel 1974.
L’opera è scritta sotto forma di dodici lettere indirizzate a un amico, di una erudizione impressionante. Le sole note occupano 200 pagine alla fine dell’opera. Questo libro sintetizza la tradizione patristica, la scienza più avanzata, le dottrine esoteriche di tutte le epoche. Il libro è dedicato al nome tutto puro e profumato della Vergine e Madre.
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Tutta la sofiologia di Florenskij di cui sentiremo parlare in una relazione successiva.
Baris Jacovenko, proprio descrivendo questo libro, diceva che si trattava di una specie di confessione speculativa religiosa degna di essere messa accanto alle confessioni di S. Agostino. Tra le altre opere di Pavel Florenskij tradotte in italiano, le potete trovare anche nei libri esposti, ci sono: La prospettiva rovesciata e altri scritti pubblicata da Cangemi di Roma 1983, Lo spazio e il tempo nell’arte 1995; La qualità della parola, La lingua tra scienza e mito. Questo è un testo formidabile perché fa vedere come la parola non sia solo un mezzo di espressione e di comunicazione ma sia un dono che uno riceve, proprio uno nasce con la parola, poi è il carisma praticamente. Uno nasce con una parola, cioè con un dono che è personale. E’ un dono che deve fare agli altri col dono della parola. Poi il valore magico della parola.
Insiste sulla parola Florenskij sul modo di comunicare, che non solo è un modo di rapportarsi ma è una conoscenza vitale. Insiste molto su questo termine.
Il sole della terra, vita dello Starec Isidoro, di cui ho già accennato poi Cuore cherubico, scritti teologici e mistici, anche questi sono molto belli, e poi il testo che stato citato già Non dimenticatemi, pubblicato di recente da Mondadori nel 2000, una raccolta di lettere che Florenskij inviò dal lager ai familiari, alla madre, alla moglie ai 5 figli.
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Il testo che voglio presentare alla vostra attenzione è addirittura un elaborato comune con il dr. Alexandr Dobroier, è un riassunto elaborato dopo un tipo di incontri a Mosca, ad Odessa e a Minsk, nell’arco di un anno praticamente i problemi sono stati discussi nel contesto interconfessionale dei cattolici e degli ortodossi.
Devo chiedere una scusa perché l’italiano non sarà troppo buono, talvolta un po’ limitato, specialmente in questi brani che sono stati tradotti da noi dal russo in italiano, non avevamo sotto mano le traduzioni già fatte, esistenti. Per la pubblicazione evidentemente prenderemo quelli ma per il momento il linguaggio non semplice di Florenskij o di qualche suo commentatore sarà forse in un italiano non molto bello, però credo che quello che volevamo portare alla vostra attenzione sarà più o meno comprensibile.
Abbiamo deciso di dare il titolo a questo piccolo intervento “ Il senso della cultura in Pavel Florenskij” nel retaggio letterario di padre Pavel Florenskij.
Come è gia stato detto da padre Lorenzo Altissimo, il patrimonio letterario di Pavel Florenskij è molto ampio e multidimensionale: quello però che nelle sue opere è forse il è più prezioso è lo sforzo continuo di capire i problemi eterni dell’esistenza umana.
Nelle sue ricerche filosofiche e teologiche egli arriva alla riflessione, anzi una meditazione sui concetti stessi del vero, del bene e del bello. Cioè, in fin dei conti, a riscoprire l’essenza e il senso della cultura. Alle questioni di cultura, cioè alla culturologia Pavel Florenskij dedicò, tra l’altro, le opere seguenti: Ragione e dialettica del 1914, Culto religione e cultura -1918, Culto e filosofia – 1918, Filosofia del culto -1922, Ikonostas , Iconostasi, del quale ci ha parlato padre Altissimo e poi anche un articolo specifico Cristianesimo e cultura – 1924
Per poter capire perché padre Pavel Florenskij si è dedicato ad elaborare un insegnamento, proprio una dottrina della cultura, si deve ricordare che egli ha intrapreso la sua opera nel contesto delle idee comuni, delle idee bollenti, si potrebbe dire dell’intelligecija russa del primo ‘900, cioè del gruppo degli intellettualisti. Infatti le questioni riguardanti: la natura e la cultura, l’uomo e la tecnica la ragione ed il culto, la cultura, erano molto attuali per gli intellettuali dell’epoca ed erano discusse sulle pagine dei giornali per molti anni, prima della rivoluzione, ovviamente.
Queste questioni, questi temi erano importanti anche per Pavel Florenskij il quale partecipava in queste discussioni. Da una parte nella cultura russa si temeva una certa estetizzazione dell’esperienza religiosa, cioè di vedere l’esperienza religiosa come un’estetica solo a sfavore dell’ascetismo cristiano.
Fra gli altri fu un altro teologo russo padre Florowskij che prese proprio questo atteggiamento critico accennando gli argomenti sui libri di Florenskij “Stolp i utverždenie Istiny” ( Colonne e fondamento della verità) : una citazione “C’era tanta torbidezza qui in tutto, nella stessa esperienza religiosa, nelle idee doppie e sentimenti ambigui, nella seduzione erotica ed estetica e la teologia russa sperimentava una tentazione estetica come prima sperimentava quella moralista”; ed il libro di Florenskij era uno dei sintomi più chiari di questa tentazione.
Sono le parole veramente molto forti, sembra non molto giuste però dimostrano un atteggiamento di questo tipo critico riguardo a Florenskij stesso. Però d’altra parte c’erano le persone come per esempio Evgenij Trubeckoj che ritenevano che la citazione:
“L’ideale cristiano non si esprime nell’affermazione unilaterale, persino monofisita del principio divino. L’uomo sulla terra è chiamato ad essere collaboratore nella costruzione della casa di Dio e da questo scopo deve servire tutta la cultura umana, la scienza e l’arte, addirittura l’attività sociale”.
Un cenno caratteristico della culturologia di Pavel Florenskij è il suo modo di intendere, di capire la relazione tra la natura e la cultura. Infatti di solito la cultura viene intesa come qualcosa secondaria aggiunta alla natura. Florenskij invece cerca di dare uno sguardo su esse come se fossero una realtà unica, senza contrapporre una all’altra.
Nell’opera Homo faber egli scrive: “Se Dio è centro e fonte di cultura è per così dire archetipo della cultura come persona razionale, se egli è Dio della storia, Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe allora perché la natura, vale a dire l’opera, la sua creatura è priva delle tracce di cultura?”
E rispondendo a questa domanda Florenskij afferma che la cultura e la natura si compenetrano e mai esistono una senza l’altra. Da una parte sono profondamente collegate dall’altra parte non si riducono l’una all’altra.
Florenskij scrive: “L’uomo portatore della cultura non crea nulla solo forma e trasforma gli elementi, d’altronde la natura non ci si presenta senza una forma culturale, senza la quale non fosse possibile conoscerla. E’ come il cibo che deve essere digerito e trasformato prima di diventare parte del nostro corpo”.
La sua concezione, il concetto sui generis , possiamo dire, della dialettica dell’unità e della diversità della cultura e della natura si fonda sulla dottrina delle antinomie; una dottrina specifica di Florenskij.
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L’ideologismo.
Secondo Florenskij questo concetto si caratterizza con la parzialità della conoscenza. Proprio per la scienza dell’800, dell’ illuminismo quindi con la perdita della prospettiva totale, integrale della realtà. Questa condotta dell’unilateralismo è estremismo nella conoscenza scientifica, nella scienza anche, che divide il mondo ricco e composto in singoli elementi e lo atomizza. Florenskij pone una domanda interessante: “Sono molti per i quali la natura non è divisa solo in elementi autonomi e slegati fra di essi? Terra, bosco, campo, fiume, ecc. Sono molti quelli che dietro agli alberi vedono il bosco? “
Secondo padre Pavel Florenskij è proprio a causa di questo atomismo disgregante dell’anima che la vita umana perde i suoi principi, la bellezza, il bene, l’utile.
Questa è una brevissima caratteristica dell’ideologismo.
L’economismo
L’economismo secondo Florenskij è una dottrina sorta nella metà dell’800, sotto influsso del sviluppo rapido della tecnica accompagnato con la degradazione e devalutazione della persona umana a favore delle masse e dei bisogni economici delle masse. Questo concetto della cultura implica il fatto che l’uomo non è capace di sovrastare ai frutti del suo lavoro.
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Secondo il nostro autore Florenskij la crisi della cultura è connessa con il razionalismo ed il materialismo.
La cultura può rinascere solo sulla base religiosa anche se la cultura occidentale si trasformò nella civilizzazione è incapace di una trasfigurazione consecutiva. La cultura russa mantenne una certa prospettiva connessa con la religione ortodossa malgrado il razionalismo occidentale che l’aveva contagiata.
Come si vede Pavel Florenskij non si ferma sulle questioni di culturologia ma egli pone le fondamenta della teologia della cultura. Questa fu la domanda importante per la Russia dell’inizio del secolo XX, è la domanda sul senso della cultura; questa domanda rimane attuale anche oggi.
Ecco volevo dire all’inizio anche che presentiamo questo breve testo nel contesto del titolo del tema del nostro convegno, del nostro seminario circa l’attualità del messaggio di P. Florenskij, anche per questo abbiamo scelto proprio il tema della cultura.
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La prospettiva escatologica del pensiero russo dell’epoca portava i cenni dell’estremo scetticismo ascetico che si ispirava alle parole si S. Giovanni evangelista, nella sua prima lettera: “ Non amate né il mondo né le cose del mondo”. Questo fu l’atteggiamento di questo scetticismo ascetico che dominava per un certo periodo almeno in certi circoli intellettuali.
Questo atteggiamento veniva dalla convinzione che prima o dopo ciò che è cultura, l’opera umana, sarebbe finito nel fuoco dell’inferno. Il ben noto teologo russo di Parigi, addirittura francofono Pavel Evdokimov commenta questo atteggiamento così:
La cultura intesa così, sia dal punto di vista classico come quello romantico, si oppone all’escatologia ed all’apocalisse, essendo scandalizzata per il fatto della morte, la cultura combatte l’ultimo fine, tende però a rimanere nella storia. D’altra parte un certo iperescatologismo facendo un salto verso la fine dei tempi, sopra la storia, rifiuta qualsiasi valore della storia ed impedisce l’incarnazione, disincarna la storia. L’atteggiamento cristiano non è mai una negazione sia escatologica, sia ascetica. L’atteggiamento cristiano è invece un’affermazione escatologica. Questo è un commento di Pavel Evdokimov del pensiero di Florenskij. Lo stesso Pavel Evdokimov descrive il destino escatologico dell’arte e della cultura umana in genere nella sua visione profetica della fine dei tempi. Il linguaggio simbolico dell’Apocalisse parla della Gerusalemme nuova come del luogo dove porteranno gloria e onore dei popoli, quindi non entreranno lì a mani vuote. Si può pensare che tutto entrerà nel Regno di Dio, tutto ciò che avvicina lo spirito umano alla verità, tutto ciò che è espresso dallo stesso spirito nell’arte è considerato vero, tutto ciò che è frutto del suo genio entrerà nel regno di Dio unendosi alla sua vera realtà come l’impronta esatta aderisce al suo originale.
La maestosa bellezza delle cime coperte dalla neve, la tenerezza del mare e l’oro dei campi di cereali diventerà linguaggio perfetto del quale ci dice spesso la Bibbia.
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In questa prospettiva escatologica della realizzazione, del compimento della cultura umana appaiono due sue funzioni importanti: teurgica ed iconica, cioè le funzioni della cultura teurgica ed iconica, cioè essere un segno essere simbolo di quello che proviene dall’altra dimensione.
Pavel Florenskij, in sintonia con la concezione ortodossa della cultura, espressamente sottolinea le origini liturgiche della cultura, la sua genesi cultuale. Egli chiama una cultura vera solamente quella che è cosciente della propria genealogia celtica o cultuale.
Così il punto di partenza per lui è il collegamento tra la cultura ed il culto.
Il culto viene trattato da lui come tutta l’attività dell’uomo, una specie tra le altre della sua attività culturale. Tutta la cultura umana è penetrata dal concetto della bellezza. Tutta la creatura di Dio è bella. Questo concetto contiene una nozione di armonia, perfezione, purezza e nel cristianesimo anche il bene. Infatti la divisione tra l’etica e l’estetica è un fatto dei tempi moderni, quando la cultura è già stata secolarizzata ed è già stata persa l’integralità della concezione cristiana del mondo.
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La frase ben conosciuta di Fëdor Dostoevskij “la bellezza salverà il mondo” non è solamente una metafora, è una intuizione precisa è profonda del cristianesimo che, attraverso millenni della tradizione ortodossa, cercava questa bellezza. Proprio la tradizione del cristianesimo orientale percepisce il bello come uno degli argomenti che Dio esiste.
Secondo la famosa leggenda, il principe S. Vladimiro scelse il rito orientale proprio grazie alla testimonianza dei suoi inviati che gli riferirono la bellezza della liturgia della “aghia Sofia” a Costantinopoli.
Per i cristiani la bellezza non ha un valore assoluto senza essere immagine, segno, causa e una delle vie che conducono a Dio. In questa maniera Pavel Florenskij rifiuta sia l’ideologismo che l’economismo e sviluppa il concetto sacrale della cultura: questo concetto sacrale della cultura significa una ricerca nella storia di ciò che oltrepassa la storia e conduce fuori delle sue frontiere.
Nelle sue opere Florenskij molte volte ripete che diverse forme dell’attività umana vanno subordinate all’attività religiosa cultuale la quale da parte sua acquista un significato originario.
La cultura in questa prospettiva diventa un segno, un dito che punta sul Regno di Dio attraverso questo mondo.
“Sub specie æternitatis” : nella liturgia perenne del secolo futuro l’uomo canterà gloria al suo Signore mediante tutti gli elementi della cultura che saranno irrevocabilmente purificati, ma anche adesso sul nostro livello i membri della comunità cristiana scienziati, artisti partecipando nel sacerdozio comune svolgono la loro liturgia laddove Cristo è presente nella misura in quanto trasparenti sono i vasi che lo ricevono.
Sono simili agli iconografi dipingendo con l’aiuto della materia e luce di questo mondo i segni che disegnano lo schizzo misterioso del Regno. Invece l’arte che ha abbandonato il sacrum si è spogliata dal suo ruolo teofanico svolgendo il compito del collegamento dell’uomo con il mondo dell’aldilà il culto, il cuore, il centro, il fiore della cultura.
La manifestazione suprema, si può dire l’apoteosi dell’attività cultuale secondo Pavel Florenskij è l’arte della teurgia e l’iconografia. Allora tutta la spirituale creatività umana trova la sua sorgente e vertice qua.
Florenskij scrive: Tutte le belle arti sono anelli della catena dell’arte più creativa e più seria della teurgia, essa è il compito più importante della vita umana, il compito di trasformare la realtà il senso e la sorgente della vita, il cuore di tutta l’attività dell’uomo.
Il valore più grande dell’iconografia consiste nella possibilità di raccogliere insieme, di unire ciò che è eterno e temporale; incarnare l’incorruttibile in ciò che subisce morte e passa. L’iconografia permette di toccare il divino e infonde la luce nella vita umana.
Secondo il concetto sacrale della cultura essa, l’iconografia, aiuta l’uomo a percepirsi come immagine di Dio. questo per sé è una prova dell’esistenza di Dio. Florenskij scrive: Se esiste la trinità di Rublev, l’icona della trinità di Rublev, esiste pure Dio.
E’ un esempio magnifico del suo modo di pensare. Così egli propone una tesi sul carattere sovrannaturale dell’arte cultuale, sacralizza le sue opere, attribuisce ad esse proprietà sovrannaturali, grazie alle quali possano mediare tra l’uomo e il mondo, possono essere sorgente della cultura.
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Avendo presentato questo breve testo voglio ancora osservare che esiste una difficoltà oggettiva quando poniamo la domanda del senso e sul senso della cultura in Pavel Florenskij. Questa difficoltà proviene dal fatto che non ha creato un concetto integrale, monolitico della cultura. Praticamente in ogni articolo, in ogni pubblicazione scopriamo qualche altro aspetto, cerchiamo poi di trovare un legame. Però questo che ho presentato è solo un tentativo di trovare una chiave per capire un po’ meglio il senso della cultura in Florenskij e sottolineare l’importanza di questa concezione della cultura anche oggi nel nostro spazio postsovietico, cioè lo spazio dove nella libertà può rinascere grande tradizione russa.
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L’esperienza diretta del simbolo in Pavel Florenskij fu precoce. Egli racconta, nelle memorie dell’infanzia nel Caucaso, le sue prime intuizioni di un mondo formalmente perfetto e completamente efficace che agiva dietro allo sfumato e al tremolio delle apparenze visibili e le lega insieme.
Il giovane Pavel fu fatalmente attratto dal mondo invisibile come in una fiaba e al suo annuncio poteva cadere quasi in trance. In tali momenti il bambino percepiva l’universo o oggetti individuali in esso come simboli, in quanto il simbolo propriamente detto costituisca un anello di congiunzione tra questo mondo e quello, sia una consistenza materiale che rivela la propria dipendenza da un archetipo assoluto.
L’anelito delle idee sovrarazionali e immutevoli insieme al sospetto che possano essere inerenti alla struttura dell’universo e l’anima umana è un dato fondamentale del romanticismo ottocentesco, è la versione seria dell’esotismo romantico, la reazione alla riduzione immortale della linfa spirituale ai livelli razionale e materiale in conseguenza all’illuminismo quale culmine della rivoluzione scientifica tardorinascimentale.
Talvolta comunque la nostalgia generale risultò nella riscoperta personale e autentica degli archetipi formanti della metafisica tradizionale, tale fu il caso inceppato e incostante del poeta inglese William Bligh, semiconsapevole in quello di Radiščev grande critico, discorsivo e scientifico di Goethe, visionario ma perfettamente oggettivo nelle celebri apprensioni della Sofia di Vladimir Solov’ëv ; mi riferisco, ben inteso, alle tre poesie di Sofia, ai tre incontri di Solov’ëv.
Invero fu la qualità oggettiva inevitabile dei tre incontri di Solov’ëv con la Sofia che più tardi spiega la direzione della poesia e della critica del movimento letterario russo intitolato al simbolismo, così diversa dalla soggettività programmata della contropartita europea contemporanea. Fu anche l’aspetto che consentì ai cosiddetti sostenitori di Solov’ëv il ritorno alla chiesa ortodossa anche se il maestro non può annoverarsi tra i pensatori della Chiesa.
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Gli scritti di Pavel Florenskij, in seguito alla rivoluzione di ottobre, implicano tutti un’ortodossia integra sostenuta, peraltro, da una salda metafisica tradizionale ma consenziente alla libera elaborazione scientifica e poetica. La realtà simbolica, o meglio la realtà come simbolo, fu rivelata allora a Pavel Florenskij già nell’infanzia, fu confermata in seguito, da ciò che era più fresco e irrefutabile in Solov’ëv, è infine incasellata, per così dire, dalla rivelazione cristiana che la spiega e la completa.
La realtà si esplica su due piani collegati insieme dal simbolo l’uno materiale, l’altro invisibile, l’uno complesso e transeunte, l’altro semplice, perfetto e perdurante. Tale è la costituzione del cosmos, tale è anche l’esperienza umana in ciò che ha di più autentico e veridico. Ecco la testimonianza di tutte le religioni, dalla preistoria fino a oggi, e anche della riflessione intellettuale più tipica e consistente fino al rinascimento europeo compresi i suoi antecedenti. Come scrive Florenskij in proposito di quel simbolo così ricco e vario, così squisitamente cristiano che è l’icona. Cito: “Nei metodi della pittura di icone che scendono dall’antichità più remota chiaramente mi appaiono i fondamenti della metafisica e della gnoseologia universalmente umana, quel modo naturale di vedere e di capire il mondo così diverso da quello artificioso occidentale che ha ispirato i metodi dell’arte occidentale”, vale a dire, aggiungo io, del rinascimento, o si può dire dal rinascimento in poi.
Essendo il simbolo la chiave per la comprensione della realtà umana, quella interiore è chiaro che le riflessioni sul simbolo o sui simboli, sono sparse un po’ ovunque negli scritti di Pavel Florenskij progettò, ma certo non mai realizzò, un vasto dizionario universale dei simboli, un cosiddetto Symbolario il cui conspectus fu scritto tra il 1920 e il 1030. Quest’illustrazione del progetto fu tradotta e pubblicata da Elémire Zolla nel suo giornale Conoscenza Religiosa n.2 del 1987, richiama la vostra attenzione a questi rari scritti di Florenskij così importanti e quasi riposti e grazie a Zolla furono conosciuti in un epoca così relativamente remota. Il punto di partenza del dizionario dei simboli sarebbe stato, avrebbe dovuto essere l’ideografia, vale a dire l’espressione di concetti medianti immagini anziché, ben inteso, i nostri soliti mezzi fonetici.
L’ideografia secondo Florenskij dalle prime evidenze fino ad oggi, rispetto ai suoi principi è fondamentalmente identica; costituisce cito ancora: “In un certo senso la lingua universale dell’umanità, la struttura dell’ideografia è numerica e geometrica come in Platone le forme regolari geometriche forniscono il passaggio dalla confusione pletorica delle apparenze alle idee indefettibili e invisibili.
La seconda sezione del Symbolario, per esempio, è dedicata alla linea verticale e contiene sette sottosezioni, dalla linea verticale singola fino alla piramide e al cono e così di questo passo, per ben 18 sezioni della proposta, presentate da Florenskij che conclude con la sfera con l’uovo e la voluta.
Volgendo la nostra attenzione più specificatamente all’icona, anche in questo caso, le considerazioni di padre Pavel Florenskij sono molte e sparse in diversi lavori; di particolare importanza sono certe sezioni del capolavoro prerivoluzionario La colonna e il fondamento della verità, uscito nel 1914, l’edizione italiana, ricordo ancora una volta di Pietro Modesto la cui versione comunque è stata non soltanto presentata in uno smagliante introduzione da Elémire Zolla ma corretta superbamente, se posso dire, limata dallo stesso.
E qualche breve saggio come, cito, Le icone della preghiera personale di S. Sergio di Radonež.
Il sacro fondatore, ricordo, del monastero della Trinità di S. Sergio, vicino a Mosca, centro, lo è ancora, della vita monastica, spirituale russa.
In più, comunque, è dissimile alle riflessioni sul simbolo abbiamo un trattato sull’icona che è ampio, coerente e completo. Mi riferisco, ben inteso, all’ormai celebre Ikonostas, vuol dire iconostasi, in italiano, tradotto anche da E. Zolla nel 1977 per Adelphi e uscito successivamente in un numero straordinario di edizioni fino ad oggi. Più che edizioni sono ristampe, mi sembra dodicesima o quattordicesima edizione.
Zolla scelse di alterare il titolo del saggio, dall’originale Iconostasi in quello di Le porte regali, riferendosi all’ingresso centrale e principale dell’iconostasi chiuso da porte che si chiamano appunto regali, nell’usanza russa ma non in quella greca, esse, le porte regali, ammettono al santuario e direttamente all’altare.
Questo saggio fu scritto nel 1921-22 a Sergiev Posad, allora chiamato Zagorosk, il cognome di un noto rivoluzionario, particolarmente sanguinario, il villaggio che accoglie il monastero della Trinità e di S. Sergio, già menzionato, dove padre Pavel, chiamiamolo così secondo l’usanza dei sacerdoti ortodossi, si occupava dello studio delle icone appartenenti alla collezione importante del monastero.
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Leggendo Ikonostas o Le porte regali è bene ricordare queste circostanze e queste intenzioni che incidono sulla comprensione del trattato fortunato nel suo insieme. Altra circostanza, molto importante è che Ikonostas non fu mai pubblicato durante la vita di padre Pavel, uscì soltanto nel 1972 sull’ annuario del patriarcato di Mosca consacrato a studi teologici ma in una versione che risultò incompleta.
Nel frattempo una versione rozzamente abbreviata di, intitolata Icona era apparsa in russo sul Messaggero del Patriarcato moscovita, stampato a Parigi.
Fu la prima volta, se ben in forma drasticamente decurtata, che si poteva prendere conoscenza del trattato di padre Pavel, siamo nel 1969, da essa, da questo saggio intitolato Icona, non Ikonostas, da questa abbreviata versione furono tratte traduzioni in francese, in italiano da Zolla e in inglese da me stesso. Finalmente nel 1977, come già detto, vide la luce la prima traduzione di Ikonostas. Quella di Zolla in italiano, seguita nel 1981 da una traduzione polacca e nel 1985 da una ristampa importante, quasi ufficiale, in russo a Parigi.
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Solo nel 1988 uscì finalmente e in lingua tedesca la prima versione integra di questa celebre, fondamentale saggio di padre Pavel seguita da una traduzione in francese ed eventualmente da versioni russe, una delle quali brillantemente annotata.
Dal 1988 fino ad oggi sono trascorsi ben 14 anni e da allora la versione italiana originale di Zolla continua ad essere ristampata nella forma incompleta e con gli errori originali, non corretta.
Non voglio muovere un ”j’accuse” contro l’amico Roberto Calasso ma la verità è questa.
Questo malgrado il grande interesse sempre mostrato in Italia ai testi di padre Pavel Florenskij, in generale, è l’importanza da non esagerare in specie di Ikonostas, nonché al fatto che grazie a Elémire Zolla Florenskij fu introdotto ai lettori occidentale per prima in Italia. Una nuova edizione completa, cioè con tutti i passi mancanti , compresi gli errori di traduzione corretti, è stata proposta all’Istituto Benincasa di Napoli, hanno acquistato anche i diritti d’Autore dagli eredi di Florenskij , io dovevo dirigere questo progetto ma sembra che sia andato a monte. Dico queste cose a voi nella speranza di qualche consiglio, se non di complicità, questo è il più importante trattato mai scritto, almeno nei tempi moderni, riguardante l’icona e le sue implicazioni a tutti i livelli, ed è non solo un peccato, cerco una parola per non dire è una falsificazione di un testo di fondamentale importanza.
Cosa si può fare per far uscire una versione completa senza offendere né l’editore né il traduttore? Forse avete qualche suggerimento da fare.
Mi dispiace perdere tanto tempo su queste questioni testuali ma nei riguardi di un testo, così ricco e così importante dell’ Ikonostas, la prima cosa è di essere consapevoli di ciò che si legge; tutto quel che si legge nell’italiano, nelle varie versioni o è incompleto o è falso, in qualche modo.
Questi travagliati problemi riguardanti il testo di Ikonostas non finiscono purtroppo qua, come vedremo tra poco, tutti i successori di Solov ’ëv si occuparono dell’icona in un modo o in un altro. Il ruolo giocato dallo stesso Solov ’ëv nella rivalutazione e comprensione dell’icona tradizionale è ancora da studiare. Dei suoi successori i tre saggi del principe E. Trubeckoj, usciti nel 1915-17, sono i più conosciuti. Esistono anch’essi in italiano, in più di una traduzione sfortunatamente dico, forse, perché questi saggi sono viziati dall’impressionismo romantico, rappresentano l’approccio, una specie di alto giornalismo.
Dopo Trubeckoj gli scritti più fortunati sull’icona della scuola di Solov ’ëv, ben inteso, sono quelli del grande amico di Pavel Florenskij Sergej Bulgakov. Ricordate tutti, sono sicuro, il famoso doppio ritratto del pittore Nesterov di Florenskij e Bulgakov che avanzano conversando, gesticolando l’uno all’altro; Florenskij era allora già prete, Bulgakov non ancora.
Padre Sergej Bulgakov scrisse un intero libro sull’icona intitolato L’icona e la sua venerazione nel 1930 e i suoi pensieri furono in seguito riepilogati nell’opera popolarissima intitolata L’ortodossia uscita in molte lingue. Questi lavori comprendono parecchie speculazioni personali, indipendenti alcune inaccettabili dal punto di vista del pensiero tradizionale ortodosso.
Altrimenti le considerazioni basilari di Bulgakov sono prese in prestito quasi interamente da Florenskij eccettuati gli errori, ben inteso, e gli adattamenti dell’autore ansioso di aggiungere l’icona allo schema delle sue idee preferite.
Questa constatazione apre la possibilità che il saggio florenskijano del 1922 non fosse soltanto conosciuto dagli amici ma che una copia o versione fosse portata all’estero nello stesso anno o nel seguente allorché Bulgakov partì in esilio.
Se questa derivazione, chiamiamola tale, non è stata ancora notata si deve al fatto che le idee fondamentali di Florenskij sull’icona non furono conosciute prima della pubblicazione di Icon, quella versione abbreviata e tagliata del 1969, mentre quelle di Bulgakov furono ampiamente diffuse ben quarant’anni prima.
Dei tre Trubeckoj, Bulgakov e Florenskij fu solo Pavel Florenskij, colui che rimase indietro, che fornì una considerazione dell’icona metafisicamente precisa e completa e nel contempo personale e impeccabilmente tradizionale.
Padre Pavel propone l’icona quale forma sacramentale che manifesta un prototipo rivelato. Non è il risultato, salvo nel senso secondario, dell’immaginazione artistica o dell’impulso teurgico, termine di moda presso Solov ’ëv e i successori.
Similmente l’icona è un oggetto teleologico, non teologico ma teleologico, totalmente significante e libero dall’associazionismo letterario di Trubeckoj. Non fu per niente che Florenskij anticipò gli strutturalisti e semiotici recenti che trattano l’icona e gli altri aspetti del culto ortodosso come insiemi oggettivamente necessari e interdipendenti.
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La tematica che affrontiamo adesso è quella teologica e tocca due temi che apparentemente sono staccati l’uno dall’altro ma, come vedremo, sono strettamente connessi quella della sofiologia e quella del rapporto tra le Chiese, l’ecumenismo, una parola che in realtà non torna tra le opere di Florenskij e però lo prendiamo nel senso di approccio al problema dell’unificazione delle Chiese, che è abbastanza presente in queste opere.
Per semplificare cercherò di non riferire tutte le fonti a cui far riferimento ma alle principali, quelle che hanno lasciato un’impronta più forte sul suo pensiero e che ci servono come chiave per capire come mai ha degli atteggiamenti che sembrano contraddittori, un po’ come la sua dottrina già richiamata prima delle antinomie. In realtà Florenskij subisce influssi di carattere molto, molto diverso per cui anche lì si può parlare di una certa frammentarietà e poi in senso positivo o di una sintesi della teologia russa.
I tre che maggiormente hanno influito sul suo pensiero sono A. S. Chomjakov, capo dello slavofilismo, morto nel 1860 è colui che ha rivoluzionato l’ecclesiologia russa, ma oggi diciamo tutta quella ortodossa, perché su questo punto della sobornost, di questa conciliarità, di questa unanimità di questo popolo di Dio è entrato anche nella teologia greca ed è l’unico punto della teologia russa che è penetrato in tutta l’ortodossia.
Poi c’è Filarete Glasgov che è il grande gerarca, colui che nell’800 è stato il punto di riferimento per tutti gli scrittori con pochissime eccezioni, la principale delle quali è Leone Tolstoi il quale nei suoi scritti teologici si scaglia violentemente contro la Chiesa ortodossa
e ovviamente, dato che il principale rappresentante era proprio Filarete Glasgov, anche Filarete subisce l’attacco che in realtà è l’unico perché tutti gli scrittori di qualsiasi corrente parlano di Filarete Glasgov che è stato canonizzato alcuni anni fa, come colui che è al di sopra di ogni sospetto ed è un riferimento ecumenico per tutti gli ecumenisti cattolici e ortodossi.
Il terzo è Vladimir Solov’ëv il quale ha una posizione unica nel pensiero russo considerato il più grande filosofo russo in assoluto, però molto tirato per le maniche sia dai cattolici che dagli ortodossi; resta il fatto che è la fonte delle intuizioni più importanti sia della filosofia che della teologia russa, ma personaggio estremamente scomodo sia per i cattolici che per gli ortodossi perché era fortemente convinto, pur accettando il primato romano e tutti i dogmi cattolici, che la Chiesa già fosse una. Quindi nessuna differenza tra cattolici e ortodossi. Questa sarà una posizione con qualche sfumatura diversa di Sergej Bulgakov il quale però riconoscerà questa divisione canonica riconoscendo l’unità già esistente delle Chiese al livello mistico – sacramentale.
Quindi tre personaggi.
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Filarete Glasgov è il grande gerarca che ha un’impostazione totalmente diversa non si ispira ad una filosofia della storia dei principi aspramente criticati da Elémire Zolla che è stato appena più volte citato che accusa appunto Chomjakov di questo balletto della storia, cioè i pensatori russi hanno una certa tendenza a giocare con la storia, a trovare delle linee conduttrici quasi sempre ovviamente a vantaggio della posizione ortodossa e questa è l’accusa appunto di balletto della storia. Ora forse l’espressione è forte, ma non si può negare che la posizione chomjacoviana sia abbastanza eccessiva.
Quella di Filarete Glasgov invece non parte da questo “balletto della storia” ma parte dalla liturgia. Ora Filarete Glasgov che cosa dice? Che il criterio per giudicare della ecclesialità di una comunità o di una confessione religiosa è il modo di recepire una conversione.
Ora nella Chiesa russa non c’è mai stato se non nel periodo 1611 – 1620 quando i polacchi hanno invaso la Russia e hanno massacrato migliaia e migliaia di monaci, infatti io ho fatto cinquanta voci di santi della Enciclopedia Ortodossa e la maggior parte dei santi russi sono stati uccisi dai Polacchi nel 1611, quindi la maggior parte, moltissimi di questi monaci. Quindi, fu soltanto dopo questo periodo drammatico di massacri che il Patriarca Filarete, che era il padre dello Zar, negò che un cattolico potesse convertirsi senza il battesimo e quindi per circa 10 anni in Russia si è ribattezzato, ma è stato, come ho detto, un’eccezione puramente di dispetto, di vendetta storica nei confronti dei Polacchi; mentre per tutto il resto non solo nei rituali russi non si contempla la ripetizione del Battesimo ma neppure della Cresima. E addirittura adesso leggevo che lo stesso Florenskij, questo mi è arrivato appena ieri, (Florenskij è tra gli autori più tradotti in italiano, che viene pubblicato continuamente, a getto continuo e escono, fortunatamente alcuni nipoti sono ancora vivi e quindi si è creato un archivio Florenskij che pubblica tutto ciò che ha scritto e tutta la corrispondenza con Bulgakov) e proprio mentre leggiucchiavo proprio in quest’istante, che nel ricevere una donna cattolica all’ortodossia Florenskij non le ha chiesto nulla, ha soltanto detto da adesso in poi sei nella comunità ortodossa.
Cioè i russi non chiedono ai cattolici se non una rinuncia a voce del primato romano, il resto non viene affatto calcolato come impedimento dell’unione alla Chiesa. Ora finalmente Glasgov parte da questa irripetibilità del battesimo dei cattolici, quindi validità dei sacramenti, e non può essere una validità puramente esteriore, ma deve avere un effetto di grazia, quindi la grazia, quindi la chiesa di Roma è chiesa a tutti gli effetti.
C’è un celebre testo le conversazioni tra uno convinto e uno che cerca sull’ortodossia della Chiesa orientale che è la magna carta dell’ecumenismo russo, in cui si dice io non mi sento di chiamare falsa nessuna Chiesa che prega Gesù Cristo. E quindi si può essere più o meno puri, più o meno con condizionamenti storici però non possiamo giudicare un’altra Chiesa della sua vicinanza allo Spirito di Dio, perché è soltanto Dio che sa fino a che punto siamo vicini. Quindi Chomjakov da una parte nega totalmente l’ecclesialità della Chiesa di Roma perché la Chiesa di Roma è uno Stato e semplicemente uno Stato.
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Mentre noi vedremo che, nonostante l’influsso forte di Chomjakov, in Florenskij non si usa mai la parola confessione o comunità ma sempre la chiesa cattolica. Quindi questo ci fa capire come l’influsso arriva ma arriva soprattutto nel linguaggio, un linguaggio violento, un linguaggio aspro su questo fatto della poca spiritualità nella chiesa di Roma mentre c’è troppa organizzazione ecclesiastica e poca spontaneità e interiorità però nel contenuto si rifà a Filarete Glasgov .
Per quanto riguarda Solov’ëv è bene ricordare che forse è stato uno dei primi ad essere letto da Florenskij, fu quando Florenskij aveva una crisi religiosa, quand’era giovane, durante gli anni del Liceo quindi una specie di ateismo che lo pervadeva nel senso ateismo ma spirituale, un po’ come quello di Leone Tolstoi. Leggendo Tolstoi negava tutto del cristianesimo, negava la Risurrezione, negava la divinità di Cristo. Come sapete Tolstoi, dato che scriveva al tempo degli Zar, tutte le sue opere teologiche sono sette o otto, non sono state pubblicate in Russia ma in Inghilterra. Però sono opere più o meno teologiche con una costante: il rigetto del cristianesimo ecclesiastico; e quindi c’è un libro intero, per esempio, di critica alla teologia di Macario, che viene criticata anche da Florenskij e le altre teologie ortodosse, mentre secondo lui il centro del cristianesimo è la non resistenza al male per nessun motivo. Ora dato che commentando il sesto comandamento, cioè non uccidere, nella Chiesa ortodossa il sesto è non uccidere perché il primo viene sdoppiato, sia Filarete sia gli altri in qualche modo giustificano in guerra, sia autodifesa, ecc. mentre Leone Tolstoi è contro qualsiasi motivo che possa spingere uno a uccidere, neanche di autodifesa , né in qualsiasi circostanza.
Questa posizione influì su Florenskij per cui quando era giovane lui era anticlericale. C’è una lettera del 1899, in cui scrive a Tolstoi e gli dice: “Dopo aver letto la tua confessione sento di non poter più essere cristiano come sono stato finora”. Però a dire la verità dopo uno o due anni, e secondo me, è stata proprio la lettura di Solov’ëv il quale pure lui scrisse soprattutto sulla risurrezione di Cristo e nostra, negata ovviamente da Tolstoi. Solov’ëv probabilmente è colui che riporta il nostro Florenskij ad un cristianesimo combattivo. Quindi comincia anche lui a parlare contro ciò che è esteriore, contro ciò che è secondario al fine di proporre agli intellettuali come Tolstoi, che non era soltanto lui, c’erano molti altri intellettuali… era un momento di grande creatività nel pensiero russo, e quindi di poter rispondere al mondo dell’intelligentia con qualcosa di concretamente sentito della fede. In questo stesso periodo lavora, è stato accennato questa mattina, agli studi matematici, che per quanto possa sembrare strano hanno influito enormemente sulla teologia, perché lui faceva parte di quella corrente della matematica della aritmologia e della discontinuità, quella che poi in geometria è la geometria non euclidea di Nikolaj Ivanovič Lobačevskij che torna spesso nelle sue opere, quindi questa antinomia, questa apparente contraddizione continua nella realtà diventa parte della verità stessa.
Qualcuno ha criticato Florenskij dicendo, in particolare G. Flarovskij, colui che ha scritto la Storia della Teologia russa, uno dei più ortodossi fra gli ortodossi, ha attaccato Florenskij dicendo che questo è contraddittorio, ma a mio avviso non c’è contraddizione, perché l’antinomia di Florenskij non e in assoluto, non è anche in Dio, è nella conoscenza da parte dell’uomo che ha sempre e comunque la verità in modo contrastante, soprattutto quando si parla di fede, si parla di Dio uno ma anche trino, si parla di Cristo uomo ma anche Dio, si parla, e questo è interessante, la tradizione di Solov ’ëv, di Bulgakov , ecc.
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Abbiamo allora una posizione complessa che trova una certa armonia nella cosiddetta sofiologia, che è uno dei campi, oggi abbiamo sentito la parola: è difficile comprendere Florenskij, questo è uno dei campi altrettanto difficili, che proviene in gran parte da Vladimir Solov ’ëv. Ricordate che Solov ’ëv ad un certo punto ha accettato il cattolicesimo.
Ognuno, sia Florenskij, sia Bulgakov, sia Trubeckoj, sia gli altri cercavano in qualche modo di staccarsi, di trovare degli elementi di stacco da Solov’ëv. Allora l’accusa nei confronti di Solov’ëv che ha creato, diciamo prima che cos’è e poi vediamo dove stanno le critiche.
Secondo Solov’ëv al Concilio di Calcedonia nel 451 la Chiesa ha raggiunto un compromesso tra la corrente nestoriana e la corrente monofisita, tra quelli che insistono su Cristo come uomo e quelli che insistono su cristo come Dio.
Un compromesso, Cristo non è confuso, non è mischiato tutto in uno, non è questo… ci sono quattro avverbi, tutti cominciano con la “a” privativa. Allora Solov’ëv dice: che non sia il caso di cominciare a trovare una soluzione positiva; cioè come mai un Dio si è potuto fare uomo, lo dobbiamo accettare solo per fede o possiamo cercare di capirci qualcosa, questa è l’origine della sofiologia: cercare di capire come un Dio perfettamente spirituale può creare un mondo, può trasmettere dal nulla e fuori di sé un qualcosa che è totalmente diverso da Lui. L’onnipotenza? Ecco, secondo Solov’ëv, secondo i sofiologi è un’accettazione per fede, ma non ci fa capire nulla l’onnipotenza di Dio. Dio non è onnipotente che può fare quadrato un cerchio. C’è l’onnipotenza lecita e l’onnipotenza non lecita. E quindi per cercare di capire cosa può essere successo, Solov’ëv mette un elemento intermedio che si chiama Sofia, la sapienza divina che è la parte sostanziale, non personale della Trinità, la parte sostanziale che si esprime soprattutto nell’amore interno alla Trinità, questo amore interno che chiamiamo Sofia, è quello che giustifica, ammette fisicamente la possibilità che un Dio si abbassi. Quindi la creazione è un abbassamento, è una Kenosis, un Dio che scende perché ama, e quando si ama ci si abbassa verso la persona che si vuole amare per attrarla a sé. Quindi questo amore creativo, che però non è soltanto un amore mio o dell’altro che nasce e muore, perché in Dio nulla muore ma è eterno, questo amore è la Sofia, la Sapienza divina che permette di non immaginare un Dio come Karl Barth tutt’altro, perché altrimenti non si spiegherebbe la creazione, se non con l’onnipotenza ma con l’amore di Dio. E quindi tutto esiste, dice Florenskij, quando vuole esprimere in modo bello questa espressione, riporta in più opere la bella espressione di Silesio, questo mistico tedesco del Rinascimento: “la rosa che tu vedi con i tuoi occhi esteriori esiste in Dio dall’eternità”, la rosa che nasce e muore, lì per lì in realtà dice Florenskij, dice Silesio prima e Florenskij insiste esiste in Dio dall’eternità, tutto esiste in Dio dall’eternità. Ecco l’aggancio con l’ecclesiologia. Se noi ci stacchiamo un po’ dalla Chiesa locale, ci stacchiamo un po’ dai sacramenti, dal ritualismo, dalle regole, dai canoni e saliamo un po’ verso l’alto e cerchiamo di entrare nella mente di Dio e Dio che immagina da sempre il mondo, non è che Dio da un certo giorno si è svegliato e ha creato il mondo, il mondo c’è da sempre: ecco perché l’eternità del mondo non è un panteismo come sono stati accusati sia Solov’ëv che Florenskij e Bulgakov, ma è sempre voluto da Dio eternamente, ma sempre voluto dall’amore di Dio quindi non è mai Dio, è una divinizzazione ma per grazia di Dio, non per natura sua e quindi questa eternità ci fa immaginare anche le cose della Chiesa, delle Chiese non come qualcosa da assolutizzare come muri che dividono, ma come muretti perché visti dall’alto anche il muro ci permette di vedere dall’altra parte.
Questo è il senso di una sofiologia che ha come scopo principale quello di far capire come mai Dio che è tutto spirito può creare un mondo materiale. Se uno si accontenta dell’onnipotenza ha risolto il problema, ma questi filosofi russi ritengono che è troppo semplice risolverlo con l’antico compromesso del Concilio di Calcedonia e con l’onnipotenza ecco quindi questa sapienza.
Soltanto mentre Solov’ëv ci vedeva poeticamente anche un elemento femminile, l’eterno femminino, quindi c’è un Dio Padre, allora immagina questa Sofia come un qualcosa che recepisce; quando si parla di amore uno pensa più alla donna, quindi al femminile e allora questo aspetto è stato classificato dai critici come una sofiologia erotica, una sofiologia in cui c’è troppo di carnalità. In realtà anche Florenskij e Bulgakov in qualche modo hanno preso di questo elemento anche se hanno voluto staccarsi criticando la carnalità come un elemento del cattolicesimo e non dell’ortodossia.
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Per quanto riguarda l’ecumenismo le mie fonti sono cinque, adesso devo aggiungere questo che è appena uscito, la corrispondenza con Bulgakov, sono cinque, tre esistono anche in italiano, e secondo me è questo che crea l’equivoco di un Florenskij antiecumenico perché quello che è uscito: Colonne e fondamento della verità, Dogmatismo e dogmatica nel cuore cherubico sono piuttosto antiche, il linguaggio è quello chomjakoviano, quindi puntando il dito contro la Chiesa di Roma. Poi c’è una tradotta in italiano che già ci fa vedere lo spirito cioè Il sale della terra racconta di quando ha incontrato la starec Isidoro, questo quand’era sbarbato, quarant’anni prima, quando era ancora giovinetto faceva da coppiere, cameriere al vicario di Trinità S. Sergio Zagorsk e
stavano parlando questo vicario con Filarete Glasgov di cui ho parlato prima, e stavano parlando di come è possibile unire le Chiese. Come si può fare perché il problema di fondo è chi deve comandare in questa Chiesa unita. Ovviamente i cattolici dicono il Papa però anche i Russi che vogliono unirsi e non vogliono il Papa, ma che si può fare? Dobbiamo rinunciare per sempre a questa unione? Allora mentre discutevano di queste cose lo starec Isidoro disse, ma scusate perché non facciamo comandare la Madonna? Togliamo il Papa e togliamo i nostri Patriarchi e mettiamo la Madonna. Ora su questo punto, anche se sembra molto ingenuo, è interessante pensare che un Bulgakov, che è una mentalità così metafisica e così sottile, quando ha fatto gli interventi al Consiglio mondiale delle Chiese ha scandalizzato tutti che uno di queste elevatezze metafisiche ha incentrato sulla Madonna l’ecumenismo.
Quindi un ‘ecclesiologia in cui si cerca di trovare il meglio non solo come fatto oggettivo della madre della Chiesa ma anche ciò che più unisce cattolici e ortodossi.
E questo lo dice in uno spirito simpatetico Florenskij che ci fa capire che è vicino, però noi confermiamo questa impressione con altre due opere che non sono state tradotte, ma che si trovano nel primo volume, sono usciti i 4 volumi delle opere complete, in edizioni abbastanza semplici un po’ come si stampavano ai tempi dei Sovietici, quindi un libro piccolo ma con 800 – 900 pagine. Sono 4 volumi.
Il primo comprende altre due opere Il concetto di Chiesa nel Nuovo Testamento che non è stato tradotto e non è stato tradotto neppure L’ortodossia . Sono due scritti che ci confermano come, fra l’altro ho detto prima ci conferma abbondantemente anche la corrispondenza con Bulgakov che ci fanno vedere un Florenskij ecumenico.
Cioè, a parte il fatto che parla sempre di Chiesa cattolica, in questo scritto parla spesso dei santi sia della Chiesa cattolica sia della Chiesa ortodossa. E così in molte espressioni soprattutto come affrontare il cristianesimo, come deve affrontare la cultura, come deve affrontare l’intelligentia anticlericale, il cristianesimo sia cattolici che ortodossi, cioè ce lo fa vedere uno scritto che non è uscito in italiano, sono un po’ sorpreso perché è una bellissima sintesi dell’ortodossia, dove dice per esempio che le icone, le candele e gli inchini per l’ortodosso sono più importanti del Filioque, dell’Immacolata Concezione e del resto perché l’essere ortodosso non è, dice Florenskij, rinunciare al Filioque, rinunciare alla comunione sotto una specie, farla con due, ma il vivere, il costume, però questo stesso fatto che richiama che c’è un costume ci ricorda il principale influsso di Filarete, cioè il cristianesimo è stato recepito in Oriente e in Occidente in due modi diversi, e lì non ci possiamo fare nulla.
Dobbiamo accettare questa diversa mentalità che certo può creare che qualcuno sia più vicino al Signore e qualcuno più lontano, ma non si può dire che uno è cristiano e ortodosso e l’altro no. E quindi la conclusione dal punto di vista ecumenico è abbastanza forte e cioè Florenskij usa un linguaggio duro perché ha lavorato su Chomjakov, cioè per una fede pura, per una fede spirituale, per l’interiorità e tutto questo, però rimane fortemente sensibile alla fede, alla grazia dell’altra Chiesa per l’influsso di Filarete.
Qual è il giudizio che hanno espresso i vari autori.
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Non sarà facilissima la canonizzazione, io sono favorevole, secondo me è uno dei maggiori santi in circolazione sia fra i cattolici e gli ortodossi perché veramente fino alla fine ha vissuto la sua fede, però dal punto di vista pratico non sarà facilissima perché anche lui ha la sofiologia, cioè questo elemento intermedio tra Dio e il mondo. E questa sofiologia in Bulgakov è stata condannata sia dal Patriarcato di Mosca, a quell’epoca, sia dalla Chiesa avversaria degli emigrati antiecumenici. Quindi condannata anche dai loro seguaci. Quindi Florenskij indirettamente, qualche volta direttamente, ma più spesso indirettamente ha subito il contraccolpo non solo della grandezza teologica ma anche della condanna di Bulgakov. Quindi per poter andare avanti in una eventuale causa di beatificazione o canonizzazione dovrà scrollarsi di dosso, non è impossibile, perché ho letto un articolo recente di un Vescovo russo che rappresentava proprio la voce ufficiale in cui persino Bulgakov veniva quasi non riabilitato ma certamente si invitava a studiare meglio la sofiologia perché la condanna non era proprio del tutto spassionata, era perché il gruppo di Parigi si rifiutava di mettersi con Mosca e di mettersi con le altre Chiese, è rimasta una Chiesa a parte sotto il Patriarcato di Costantinopoli, è russa ma sotto il patriarcato di Costantinopoli, allora il sospetto è molto forte che la condanna di Bulgakov non sia stata perché c’era la sofiologia, ma perché quelli non si volevano sottomettere. Quindi adesso i russi vedono con animo più sereno e poi Florenskij ha il grande vantaggio che la sua morte, la maniera in cui è morto, la scoperta del 1991, prima tutti quanti, anch’io nei miei testi abbiamo messo il 1943 come anno della morte di Florenskij, adesso tutti quanti ci correggiamo i testi, l’8 dicembre venne fucilato presso Leningrado, quindi questa morte da martire sicuramente farà camminare, se non arriveremo, certamente nella mentalità comune dei fedeli ortodossi è già considerato un santo.
È per me una grande gioia perché lavoro nel campo ecumenico che questi personaggi che riconoscono la grazia e l’ecclesialità della Chiesa di Roma, sia pure con un linguaggio critico, come anche Filarete possano avere questo riconoscimento ufficiale perché certamente influirà positivamente sui rapporti fra le Chiese, quindi in prospettiva speriamo. Questo è la speranza anche se bisogna avere anche pazienza della riunificazione delle Chiese.
La consolazione della Sophia nella metafisica religiosa russa di V.S. Solov’ev
Il 19 dicembre 1874, all’età di 21 anni (un mese dopo la discussione della sua tesi accademica per il titolo di magister), V. S. Solov’ev ottiene la cattedra di Filosofia nel ruolo di docente ordinario all’università di Mosca. Era figlio dello storico Sergej Michailovic, all’epoca rettore della stessa Università (cosa che, comunque, si dice non abbia influito direttamente sulla nomina, data l’effettiva preparazione del giovane magister).
Dopo un semestre d’insegnamento, chiede ed ottiene di recarsi a Londra per studiare presso la biblioteca del British Museum. Qui per la seconda volta ha il fenomeno mistico della visione della Sofia, come egli stesso racconta, che lo invita a recarsi in Egitto, dove in effetti si reca tra il ’75 e il ’76: qui ne avrà una terza e ultima visione.
In parte al Cairo e in parte a Sorrento, dove si ferma per una tappa al ritorno, scrive in francese un’operetta che in una lettera alla madre (4.3.76) definisce ironicamente di tipo “mistico-teosofo-filosofico-teurgico-politico”.
Quest’operetta non vedrà allora la stampa. Il manoscritto – 82 grandi fogli autografi, di difficile lettura, pieno di abbreviature, annotazioni, lacune e con cattiva numerazione – raccolto dal nipote, e che si trova attualmente negli archivi dell’università di Mosca, verrà pubblicato per la prima volta con il titolo di La Sophia nel 1978 da François Rouleau, a Losanna, nella sua lingua originale, il francese.
Aleksej P. Kozyrev, maggior studioso attuale di Solov’ev, nella sua riedizione dell’opera (1991), propone una numerazione diversa dei fogli rispetto a quella di Rouleau (riproposta dal curatore dell’edizione italiana A. Dall’Asta, che anch’io seguo, preferendola a quella di E. Treu, che segue Rouleau). In questa ristrutturazione, gli scritti composti al Cairo e a Sorrento (in forma dialogica), sono preceduti dalla parte in forma monologico-espositiva, ritenendo che sia stata composta precedentemente, sia per criteri interni, che per riferimenti alla prolusione ai corsi universitari moscoviti del gennaio 1875.
I primi tre capitoletti dell’opera (di stile monologico-espositivo), con cenni alle fonti del pensiero di Solov’ev.
I primi tre capitoletti possono essere considerati una difesa della possibilità della conoscenza metafisica, a partire dall’evidenza dell’esperienza fenomenica, salvaguardata nella sua oggettività ed esteriorità (dunque non idealisticamente prodotta).
Il superamento del livello fenomenico è dato per necessario, ad esempio, con la seguente argomentazione: realtà ed esperienza possiedono una propria intrinseca ragion d’essere, un proprio senso, che però non svelano immediatamente, creando un cosiddetto “bisogno metafisico”. Inoltre: esiste un fine, uno scopo all’attività umana, sia teoretica che pratica: sul piano conoscitivo il fine è la ricerca della verità e su quello morale la ricerca della felicità. Entrambe però (sia verità che felicità) non sono immediatamente date, riscontrabili con semplice evidenza nel piano fisico, ecco dunque il bisogno metafisico di superare la realtà immediata. Il prodotto sono tutti i sistemi filosofici e religiosi che vogliono dare all’intelligenza la verità, e all’attività pratica norme etiche.
Nemico, all’epoca, dell’atteggiamento metafisico, era l’atteggiamento scientista tipico del positivismo. Che Solov’ev attacca col metodo della “reductio ad absurdum”, cioè dall’interno della motivazione positivistica, per rovesciarla ed affermarne il contrario. Ad esempio: il bisogno metafisico è considerato una malattia dai positivisti, i quali perciò pensano che il rimedio (= i sistemi filosofici e religiosi) sia inefficace e inutile: l’umanità sarebbe perciò condannata a quella perenne frustrazione di cui egli prova drammatica esperienza. A ciò egli argomenta che “il perenne anelito” è talmente inerente e intrinseco alla natura umana, che saranno piuttosto coloro cui manca da considerarsi esseri anormali o mostri. E’ chiaro che il proprio forte e intenso bisogno metafisico lo portava a non accettare la diagnosi positivista di uomo malato e destinato a rimanere tale per sempre.
Ecco allora una prima accezione di filosofia come terapia: la visione filosofica che risponde alle più radicali domande dell’uomo, è efficace nel sanare i tormenti del suo anelito.
Nel secondo capitolo tratta di due argomentazioni antimetafisiche, una definita più corrente, volgare e un’altra propriamente filosofica. Quella volgare muove dalla constatazione che lo spirito umano è limitato e incapace di raggiungere l’essenza delle cose. Tale affermazione è confutata equiparandola a quella di chi, vedendo un bambino di pochi mesi non parlare, ne consegua che non parlerà mai.
Quanto all’argomento filosofico che prova l’impossibilità della conoscenza metafisica, viene presentato sotto tre diversi aspetti, di cui ci soffermiamo su quello che prende come punto di partenza l’oggetto che deve essere conosciuto, cioè l’essere metafisico (lettura commentata da op. cit., p. 136-139).
Nell’ambiente culturale non solo russo dell’epoca, rifiutare il positivismo e le sue radici illuministiche antimetafisiche significava fare i conti con il recupero idealista della metafisica. Volendo evitare di ricondurre tutto a Soggetto o a Ragione, Solov’ev si orienta verso Schelling (in quanto attento anche al polo oggettivo e all’irrazionale nell’Assoluto), anche perché Schelling recuperava tutta quella tradizione occultista ed esoterica che allora andava di moda in Russia, cioè, per capirci, i sogni del visionario Swedenborg, bersagliati da Kant, con tutta la sua folta schiera di predecessori e successori.
E Solov’ev cade in pieno nel fascino dell’attrazione dell’occulto: a Londra, al British Museum, infatti, ad altro non si era dedicato se non a sviscerare ed approfondire le fonti antiche e moderne della cosiddetta “filosofia occulta”, orientandosi tra la grottesca ciarlataneria in cui volentieri decadeva, per giungere a una gnosis limpida e distillata, da riproporre senza difficoltà in veste razionale utilizzando metodi e linguaggi attinti dai vari sistemi filosofici, linguaggi e metodi che egli dimostra di possedere e utilizzare con impressionante abilità. In fondo anche altri (sicuramente Schelling, forse anche lo stesso Hegel) avevano fatto così, solo che Solov’ev non ne condivide gli esiti panlogistici e i successivi rovesciamenti materialistici.
Caso mai si confronta con i pensatori di un’epoca che considera pervasa di analogo clima culturale, la tardo-antica età alessandrina immediatamente post-cristiana, e, sulla scia, ad esempio di Origene, confronta gli esiti della gnosis con la religione cristiana, affascinato anche dal fatto che questi pensatori cristiani erano pure prossimi a quella fonte originaria di sapienza dell’antichità che era l’antico Egitto. Ecco allora la verità universale, eterna, legata al passato, ma, in quanto eterna, capace di dare ancora frutti, cioè illuminante rispetto al presente e al futuro. Ecco dunque individuata la “via regia” che porta alla soddisfazione del pressante bisogno metafisico.
Tornando allo scritto La Sophia, esso contiene tutto ciò nella ribollente fase iniziale della scoperta giovanile.
Parte dialogica (e confronto con Boezio).
La parte dialogica vede come interlocutori “il Filosofo” e “Sophia”. Questa figura femminile è una specie di spirito-guida, giustificato anche razionalmente alla fine della parte monologico-espositiva precedente, e cioè fatto rientrare nel quadro metafisico di continuità tra il mondo divino trascendente e quello spirituale umano.
Il pensiero va alla figura femminile di Filosofia che consola il carcerato Boezio, figura femminile che gli appare, che egli descrive e che presenta molte caratteristiche simili alla Sophia di Solov’ev (lettura da Boezio, La consolazione della filosofia libro I). In particolare la Filosofia di Boezio, dopo averlo osservato, così diagnostica: “soffre di letargia”, la quale altro non è che dimenticanza, perdita di conoscenza, di memoria, di gnosis salvifica. E comincia la cura con i rimedi più blandi, che sono le domande volte a fargli ricordare qualcosa su di sé e sulle cose, in modo da verificare se è ancora accesa quella scintilla su cui far leva, per giungere al pieno ricordo della conoscenza dell’intero fine delle cose, nel cui oblio consiste appunto la malattia, che può essere di una gravità tale da portare alla morte. Ma la risposta alle domande più semplici dà speranza a Filosofia, che con paziente lavoro ricostruirà il filo della memoria e quindi la conoscenza e la salvezza. In particolare questo rammentare e ricordare progressivo e aiutarlo a ricollocare gli ordini di realtà al loro giusto posto, in cui consiste la stessa cura, porterà Boezio alla fine a capire che salute = bene = virtù = (che implica anche resistenza alle prove, tra cui quella cui è sottoposto = accettazione della imparziale fortuna, che non procede a caso ma secondo l’ordine stabilito e impartito da Dio, bene sommo). Salute è conoscenza, nei suoi vari gradi, fino a quello intuitivo, che permette di vedere le cose e la realtà dal punto di vista di Dio, perciò nel loro ordine.
Sembra quasi che Filosofia sia arrivata all’ultimo momento utile, ma ancora in tempo: tale privilegio è dovuto al fatto che Boezio l’aveva sempre ricercata e amata, e lei non ha abbandonato l’amante fervoroso e fedele nel momento della necessità.
Un analogo stato di sofferenza interiore si poteva forse ravvisare nella fase adolescenziale della vita di Solov’ev, che aveva rifiutato la tradizionale fede ortodossa trasmessagli dalla famiglia, dichiarandosi ateo, crisi da cui uscirà grazie ad una passione per Spinoza, cui seguirà un analogo forte interesse per Schopenhauer, in cui, per contrasto rispetto a Spinoza, trova conferma della frase del vangelo di Giovanni secondo cui tutto il mondo è male. Ricordiamo che il denominatore comune di tutte le visioni gnostiche dell’antichità era appunto dato dalla concezione negativa della realtà fisica.
Ma torniamo alla visione di Sophia.
In Solov’ev la a connotazione di Sophia è ancor più in senso mistico e religioso che in Boezio: infatti la sua prima apparizione si era verificata in contesto liturgico, durante la celebrazione della Divina Liturgia al momento dell’Inno dei Cherubini, e precisamente quando il coro canta “abbandoniamo le preoccupazioni mondane”, per essere in grado, appunto come cherubini, di passare dalla rievocazione dell’evento salvifico che si svolge qui in terra, a quello che si svolge in cielo. E’ anche il momento della chiusura delle porte regali al centro dell’iconostasi, quello in cui il mistero si infittisce e si nasconde dietro il velo della visibilità, ma non per questo è meno reale. Il fanciullo Vladimir vede invece le porte regali aprirsi, sparire la folla dei celebranti e dei fedeli e tra le nubi azzurrine dell’incenso e l’oro delle icone un volto di donna che gli sorride e che lo attrae in modo ben più prepotente dei precoci amori giovanili.
A Londra gli appare solo per invitarlo a recarsi in Egitto per incontrarla, e alla fine di una notte stellata e gelida trascorsa nel deserto (cito una narrazione poetica dell’evento da parte dello stesso Solov’ev in: Sulla Divinoumanità e altri scritti, Jaka Book 1971, p. 21):
“nel rosso porpora del cielo scintillante, / ripieni gli occhi di infuocato azzurro, / guardavi tu, come il brillar premevo / del giorno della creazione universale. / Compresi tutto d’uno sguardo solo, / immoto quel che fu, che è e che sarà … / … / Io vidi il tutto, il tutto era / un’unica persona di muliebre bellezza, / entrava a farne parte l’infinito, / davanti a me e dentro a me tu sola.”.
Sembra di capire che la visione è un’esperienza mistica di intuizione intellettiva, rispetto alla quale il dialogo è un cammino razionale volto a esplicitare il contenuto percepito in un attimo, sostenuto anche dalla forza che questa visione ha comunicato.
Il dialogo comincia con queste parole di Sophia (tra parentesi un mio commento):
“Tra l’Oriente pietrificato e l’Occidente che si decompone (entrambe degenerazioni dell’atteggiamento nei confronti della verità religiosa) perché cerchi colui che vive (citazione evangelica) tra i morti (riferimento ai sarcofagi egiziani)?” (cit. p. 162)
Il dialogo prosegue con l’obiettivo di cercare una verità vivente, da confrontare con il cristianesimo storico, nella convinzione che è solo la religione a poter assumere quel ruolo di unificazione del sapere, dell’essere e dell’agire nell’unità vivente ricercata.
Il Filosofo interroga Sophia sul principio primo di ogni sistema religioso e filosofico, ovvero sull’inizio della realtà e ancora sulla possibilità che questo sia conoscibile. Sophia gli risponde che, se è vero che la conoscenza umana è relativa e fenomenica, tuttavia i fenomeni esterni sono una manifestazione dell’essere in sé, manifestazione per un altro, grazie ad una relazione di corrispondenza. “La totalità dei fenomeni è la loro concatenazione generale o il loro ordine. … Ogni ordine presuppone un principio d’ordine. … L’ordine universale è la concatenazione dei fenomeni in relazione al principio assoluto, … che viene conosciuto non immediatamente nella sua specifica natura, ma (appunto) in relazione ai fenomeni (stessi), come il principio della loro gerarchia” (cit. p.167).
Il cammino che Sophia fa compiere al Filosofo parte dall’analisi sull’interiorità. L’esperienza interiore svela innanzitutto noi stessi come nuclei di forza o potenza o desiderio (di realizzare un certo atto, pensiero o desiderio, attualmente particolari e limitati ma potenzialmente infiniti). Dice Sofia: “Se tu sei potenza, quando agisci conservi il tuo essere, anzi lo manifesti, senza per questo diminuire in potenza”. Ugualmente agisce il principio, nel manifestarsi attraverso l’ordine universale e la concatenazione dei fenomeni.
Il soggetto eterno è anche spirito, per analogia al fatto che io percepisco come spirito il libero principio della mia realtà soggettiva individuale.
Il principio assoluto, per essere principio dell’essere, deve precedere l’essere. Il principio come forza originaria non è l’essere ma lo produce come attuazione della sua potenza.
Inoltre il principio assoluto, essendo uno, è semplice, non implicando molteplicità non richiede la relazione. Però, deve essere anche principio di pluralità, altrimenti lo si conosce per metà.
(leggere p. 169).
Come principio della pluralità il primum è amore, forza che innanzitutto permette all’unità di affermare se stessa, rispetto a qualcosa della sua natura che invece lo porta in direzione contraria. rispetto alla primaria unità divina: e questo qualcosa sarebbe il principio antidivino, che si configura come non essere ma aspirazione all’essere, appetizione o concupiscenza, il quale si impadronisce della molteplicità ideale (idee) e le sostanzializza materialmente come corpi, corpi per la sensazione, ovvero il massimo dell’esteriorità.
La vera unità positiva non fugge la pluralità ma vince su di essa tramite l’amore. Il principio assoluto non è libero se non trionfando eternamente sulla necessità di produrre l’essere esteriore. Questa vittoria si ha appunto mediante l’amore, e in ciò consiste la sua perfezione assoluta.
Il secondo principio, quello della molteplicità, sarà sempre, come il primo, potenza immediata, ma non di essere, cioè tendenza positiva, spirito, bensì potenza nel senso di desiderio dovuto a mancanza, privazione = materia, polo del principio che tende necessariamente alla cieca manifestazione esteriore e fenomenica (per i sensi), potenza passiva.
E qui si sente echeggiare tutta la tradizione mistico-esoterica, che Solov’ev utilizza anche per la teodicea Trinitaria, cui vengono ricondotte le prime tre ipostasi di Spirito, Intelletto e Anima.
L’Anima, in particolare, dotata di funzione passiva, quando pensa e vuole dedicarsi all’attività creativa propria del principio spirituale, e non accontentarsi di mantenere il suo legame con lo spirito, degenera (secondo il mito gnostico del peccato di Sophia, qui identificata piuttosto con l’anima del mondo).
La conseguenza è la nascita dell’essere parziale come molteplicità frammentata, che vuole affermarsi come potenza assoluta esclusiva in un essere parziale. E’ lo spirito antidivino, qui chiamato satana, spirito falso che può impadronirsi dell’anima del mondo e dell’anima umana per annientare la sua unità e distoglierla dal suo ruolo di centro cosciente e legame interiore tra tutti gli esseri.
Abbiamo così il caos, il disordine (campo fisico), l’odio, la malvagità (campo morale).
Sophia è l’anima del mondo in quanto vincitrice sulla disgregazione introdotta da satana , e sull’unione intellettualistica, razionalistica che il Demiurgo cerca di attuare (demiurgo = anti-intelletto, artefice di una unità formale, puramente astratta), e che, in campo morale corrisponde alla giustizia esteriore.
L’unità ricostruita da Sophia è fondata sull’amore, su quell’amore proveniente dallo Spirito divino che riunifica il frammentato mondo fenomenico alla luce del principio positivo divino.
Lo stadio finale e lo scopo del processo universale è la riunificazione completa dei due mondi, la libera sottomissione del mondo materiale a quello spirituale. Tramite la figura mediatrice di Sofia, anima spirituale del mondo, la materia diventa il corpo dell’organismo perfetto, da attuarsi tramite l’amore, vincitore sulla disgregazione del bellum omnium contra omnes e sull’ordine di tipo intellettualistico, astratto, sterile, fondato sulla giustizia esteriore, instaurato dal Demiurgo. Sophia è anche figura di quell’organismo sociale perfetto (=la Chiesa), in cui l’unità interiore è data dalla libera sottomissione al Logos-Cristo. Le anime sono la materia del suo corpo.
La sofferenza è la conseguenza dei limiti di un essere parziale, è lo stato di separazione delle anime, e di ogni singola anima, nel mondo materiale. Di conseguenza ogni essere parziale ottiene vera potenza e felicità solo nell’abnegazione, negandosi: affermandosi infatti si afferma solo come parziale =determinato da altro = schiavo della necessità esteriore.
Ma quando l’essere parziale si rinnega e si sottomette al tutto come suo membro, perde la sua parzialità esclusiva: in ciò consiste la guarigione, gode della vita del tutto, e poiché il suo essere membro del tutto è in accordo con la sua volontà, si sente libero, non soffre. Libertà e felicità per l’essere parziale consistono nella sua sottomissione volontaria all’essere universale.
La differenza rispetto allo stato iniziale è che allora la sottomissione non era voluta liberamente, frutto di una scelta. La sottomissione deve essere la negazione della negazione.
L’anima è principio di unità finchè è passiva, resta passivamente sottomessa al mondo ideale e spirituale: levandosi contro esso e separandosene infatti, come abbiamo visto, diventa principio dell’essere parziale ed esclusivo, della divisione, dell’odio e della lotta.
Il legame che connette l’essere parziale con il tutto è quello amoroso: meno un essere è limitato, più è collegato al tutto tramite il legame amoroso, e meno soffre. Più gli esseri sono lontani dalla perfezione divina, minore è il carattere universale del loro amore naturale e viceversa. Naturalmente si deve parlare di un amore completo e perfetto, che includa le due direzioni: quello ascendente, verso un essere spirituale superiore che è necessariamente unico e sessualmente complementare (v. Sophia), e quello discendente, inferiore, particolare.
Quando si ama un essere superiore si ricevono, per comunicazione libera interiore, i principi della sua vita spirituale, partecipando in tal modo alla sua vita, e alla vita divina.
Nelle pagine successive l’autore traccia la bozza di una cosmogonia evolutiva, nella sua dinamica disgregativa e ricompositiva, contrassegnata in particolare da quell’evento centrale che inverte la rotta discendente e che consiste nell’intervento salvifico di Dio nella storia tramite l’incarnazione del Logos, presupposto e condizione della possibilità di ripercorrere il cammino inverso e quindi giungere alla salvezza, di cui è prefigurazione e tipo la vergine Madre di Dio.
Ma ormai il dialogo è diventato il monologo di Sophia.
(fine della presentazione dello scritto La Sophia).
Brevi cenni sugli sviluppi del pensiero e della vita di Solov’ev.
La visione d’insieme esposta in questo scritto giovanile ispira la successiva attività teoretica di Solov’ev, il cui “sistema” si può dire che fu meglio esposto in quelle dodici Lezioni sulla teandria che tenne a Pietroburgo nel 1877, cui partecipò l’intellighentia dell’epoca, tra cui Dostoevskij, che ne rimase affascinato e ne fece propria integralmente la filosofia. Sarà inoltre l’ispiratrice dell’attività pratica di Solov’ev, che abbandonato presto l’insegnamento universitario, si dedicherà all’attività di animatore culturale della politica, della religione e comunque della cultura russa, con intensa attività pubblicistica, allo scopo di costruire quel corpo sociale perfetto in una teocrazia storica. In questo quadro è da collocare anche la sua discussa adesione al cattolicesimo, e l’apologia del ruolo storico della chiesa cattolica, pur senza mai rinnegare l’appartenenza all’ortodossia.
Le immancabili clamorose delusioni lo portarono, negli ultimi anni della sua vita, a rinchiudersi in un oscuro pessimismo, per poi recuperare la sua giovanile visione del mondo, ma ad un livello diremmo cosi metastorico ed escatologico, rilanciando cioè alla fine dei tempi il raggiungimento degli obiettivi ideali da lui intravisti, andando così a confluire nelle prospettive millenaristiche di cui pur aveva trovato traccia bazzicando nelle trame sotterranee della storia. Nei “Tre dialoghi e breve racconto sull’anticristo”, con la preveggenza tipica forse di chi è vicino alla morte (1900), cerca di sollevare il velo della storia per sbirciare nel XX e nel XXI secolo, il primo che vede attraversato da violenti avvenimenti totalizzanti, il secondo caratterizzato politicamente dal raggiungimento del regno dell’anticristo, che è colui che assopendo nel benessere materiale i bisogni anche metafisico-religiosi della massa, ne arriverà al controllo globale, con l’esclusione di pochissimi rappresentanti delle tre confessioni religiose cristiane che ne subiranno le persecuzioni, ma che si accingeranno anche a risorgere per andare incontro al Cristo glorioso della seconda venuta, riconosciuto come messia prima di tutti dagli Ebrei e indicato come sposo eterno dalla Santa Sofia, questa volta identificata con la donna vestita di sole dell’Apocalisse.
Sul pensiero religioso, filosofico e politico di Solov’ev, nonché sulle traduzioni dei classici antichi dal lui realizzate (per esempio tutti i dialoghi di Platone), sulle voci per l’enciclopedia filosofica che avrà ampia diffusione in Russia, si formerà tutta quella fervida intellighenzia che costituì la rinascita culturale russa del primo Novecento, spazzata via dalla rivoluzione sovietica, che costrinse alcuni ad emigrare, altri a consumarsi nei gulag. Qualcuno provò anche a sopravvivere, camuffandosi dietro il linguaggio sovietese della cultura ufficiale. Altri ancora videro nel comunismo sovietico la realizzazione del messianismo cui aveva dato espressione lo stesso Solov’ev.
Con Solov’ev e i suoi più o meno diretti discepoli, il pensiero filosofico e religioso russo attuale cerca con fatica di confrontarsi, come per riannodare un filo violentemente strappato, innanzitutto andando la leggerne per la prima volta le opere, per riprendere poi quanto di specifico dello spirito russo Solov’ev aveva saputo tematizzare, e anche per additare alla Russia il ruolo storico proprio della sua identità nazionale.
Ermeneutica del simbolo
Artisticamente “Santa Sofia” è la denominazione di un soggetto iconografico molto noto e molto amato in Russia. Rappresenta una angelica figura femminile di color rosso infuocato, vestita regalmente, seduta su un trono, collocata al centro di una serie concentrica si sfere celesti. Ai lati due suoi discepoli: la Madre di Dio e s. Giovanni Battista. Sopra, il Cristo-Logos e ancora sopra la volta celeste con angeli e al centro un trono dove non siede nessuno, ma dove sono collocati un libro e una croce.
Non si conosce l’origine di tale composizione iconografica, né il suo significato preciso, che comunque si collega al culto bizantino di S. Sofia (in cui onore Giustiniano fece erigere l’omonima cattedrale) e della Sapienza divina, già testimoniata nell’Antico testamento. Qui viene anche considerata come una realtà ipostatica, che ha partecipato con Dio alla fondazione del mondo, infondendovi ordine, peso e misura, ma anche gioco e ilarità. In Russia la vittoria del cristianesimo sul paganesimo venne identificata con la vittoria della Santa Sofia, cui venne dedicata la Cattedrale di Kiev. Le cronache della sua costruzione(1032) introducono un parallelismo tra Jaroslav, Giustiniano e Salomone, come costruttori di un Tempio alla Sapienza divina.
Per il messianismo slavofilo di Otto e Novecento, la Russia continua ad essere considerata ancora luogo privilegiato di manifestazione della S. Sofia (se non la sua stessa incarnazione storica), dunque luogo in cui avverrà, anche storicamente, la riconciliazione tra mondo trascendente e mondo immanente, alla fine dei tempi.
Secondo una prospettiva filosofica e religiosa che presuppone l’ontologia della scissione, la separazione, il dualismo radicale tra i due mondi trascendente e immanente, la perfezione del primo e la negatività del secondo, Sofia può essere interpretata come soluzione mitico-simbolica per indicare la sostanzialità della mediazione, e per spiegarne il salto in termini di caduta.
In una prospettiva univocista di tipo mistico, è la figura simbolica che rende contemplabili alcune strutture e dinamiche che regolano il rapporto tra Dio e il mondo, evitando però il panteismo sia soggettivistico che naturalistico, è la figura simbolica (ricordiamo il significato platonico del simbolo, cioè il ricomporre l’unità delle due parti di tessera spezzata, identificabili con i due mondi) che rende reale il rapporto di partecipazione, che rende comunicabile l’energia e la grazia divine, su cui si fonda la possibilità di risalita, cioè di salvezza.
I Padri della Chiesa (Atanasio, Basilio) affrontarono il tema della Sapienza divina in un’ottica di questo tipo, cioè della continuità tra i due mondi (secondo la teologia mistica codificata da Dionigi Areopagita) sollecitati anche dallo scritto cristiano di grande successo nei primi secoli “Il Pastore di Erma”, in cui il protagonista riceve messaggi da una figura femminile che gli appare. Solo che dovettero fare i conti con la femminilità della Sapienza e l’attribuzione paolina che indica Cristo come Sapienza di Dio. Infatti Atanasio distinse tra una sapienza creatrice, (attiva =Logos=Cristo)) e una sapienza creata (passiva=Sophia), che da ideale si concretizza , per diventare traccia di Dio nella creazione.
Secondo il filone sofianico della riflessione ortodossa russa del Novecento (Berdiaev, Averincev) la sapienza di Dio reggitrice del Cosmo e della Storia, è rivelata, sì, ma soprattutto ancora misteriosa e nascosta, custodita dal fascino di una tradizione criptica cui è più affine il linguaggio dell’esoterico, o al massimo quello dell’arte. Rispetto ad essa, l’approccio razionalistico (anche in campo teologico) tende a mantenere la separazione col trascendente, a identificare il trascendente con l’astratto, slegato dalla realtà, a considerare ogni visione realistica della trascendenza come una pagana, magico-superstiziosa ingenuità.
Il luogo del confine tra immanente e trascendente, abitato dal Guardino della soglia tra i due mondi, naturale e soprannaturale, visibile e invisibile è invero frequentato, oltre che dalle mistiche cristiane, anche dalle mistiche pagane, ebraiche e anche islamiche: ricordiamo le cosmogonie gnostiche, la Scala di Giacobbe, la Shekinah o Gloria divina, non conosco direttamente il campo islamico, mentre, per tornare nell’ambito della teologia bizantina, trovo significativa la teoria esicasta delle energie divine nella teologia di S. Gregorio Palamas, (XIV sec.), le quali permeano la creazione, permangono in essa, e rendono possibile la trasfigurazione spirituale dell’uomo (deificazione) e del creato.
Dal punto di vista gnoseologico, la Sapienza è unità del sapere in profondità, a livello di sorgente viva, fonte nativa ribollente, nella cui scoperta e valorizzazione sta il tratto peculiare del pensiero filosofico russo ad es. di P. Florenskij, che si propone la ricomprensione dell’idealismo realistico di tipo platonico a partire alle sue sorgenti vitali, alle quali la coscienza attinge il senso unitario dell’essere.
L’approccio illuministico e positivistico alla conoscenza, tipico invece del razionalismo della nostra modernità occidentale, considera pericoloso il ricorso al mito, per la sua ambiguità, perché equivale ad abbandonare il campo della razionalità e incappare nelle trappole del pregiudizio, dell’ignoranza, della menzogna, della falsità ottenebrante, e tutt’al più finalizzata al controllo delle masse (Roland Barthes, U. Eco).
(Ma questo ci rimanda all’antica tematica del rapporto mithos-logos )
Ma un altro percorso dell’ermeneutica novecentesca del mito è quella percorsa ad es. da Mircea Eliade, Jung, che lo considerano archetipo universale dell’inconscio individuale o collettivo, potente catalizzatore di funzioni, esigenze, bisogni propriamente umani, dunque di forte valore antropologico. Jung fu affascinato e studiò approfonditamente tutto il serbatoio di miti offerto dalla filosofia occulta. Occupandosi del Pastore di Erma, afferma che la donna che appare a Erma (avvicinabile alla Filosofia di Boezio e alla Sofia di Solov’ev), è il frutto del passaggio dal culto della donna a quello dell’anima nell’antichità.
Seguace di Bachelard nell’analisi razionale dei miti, allo scopo di guadagnarne alla filosofia e alla scienza le intuizioni metarazionali, J. J. Wunenburgher, che si è interessato anche alle visioni di Solov’ev, afferma che questo tipo di immagine (la Sofia) gioca un ruolo anagogico che rinvia lo sguardo dalla copia al modello, dal basso all’alto, ma anche dalla superficie alla profondità (cfr. analisi del profondo junghiana), rendendo possibile il ritorno della creatura verso la sua sorgente di vita e di salvezza, in un processo di deificazione, cioè reintegrazione alla vita perfetta, che è appunto quello terapeutico di guarigione[2].
Annarosa Ambrosi
Padova 14/3/2002
(Relazione di Annarosa Ambrosi per la serie di incontri sul tema: “Filosofia come terapia” – Padova – Liceo classico Tito Livio – marzo 2002)
[1] Fonti bio-bibliografiche in: A. DELL’ASTA, Introduzione a La conoscenza integrale di V. S. SOLOV’EV, La casa di Matriona, 1998. Da tale testo sono tratte anche le successive citazioni dell’opera La Sophia (ivi contenuta) di SOLOV’EV.
[2] AA.VV., Dalla Sofia al New Age, Lipa 1995, p. 95ss.
Il senso profetico in Vladimir S. Solovëv
A Padova il 17 febbraio 2001 presso la Sala del PRESBYTERIUM, Via del Santo n.131) si è svolto un Convegno – Simposio su “IL SENSO PROFETICO IN V.S.SOLOV’EV” (a 100 anni dalla morte – “respirare con due polmoni”) Continua a leggere
La ricostruzione dell’icona costantinopolitana
Contributo scuola di iconografia san Luca al Convegno Internazionale su San Luca del 2000
Hanno collaborato: Giovanni Mezzalira, Annarosa Ambrosi, Daniela Borgato, Wilma Pegoraro.
Si ringraziano quanti hanno fornito informazioni e suggerimenti qualificati, in particolare:
don Francesco Trolese, prof. Pina Belli D’Elia, prof. Sania Gukova, Padre Georges Gharib, prof. Valagussi.
Importanti informazioni sull’argomento sono disponibili anche sul Sito dell’Abbazia di Santa Giustina in Padova.
L’anniversario dell’Incoronazione della Icona Costantinopolitana della Beata Vergine Maria, Madre di Dio, venerata nella Basilica di S. Giustina ricorre il giorno 23 maggio.
Gli atti del Congresso su S. Luca sono stati presentati il 15/06/2002 presso l’Aula Magna dell’Abbazia S. Giustina in Padova. E’ stato illustrato il primo volume degli Atti del Congresso Internazionale “S. Luca evangelista testimone della fede che unisce”: l’unità letteraria e teologica dell’Opera di Luca. Continua a leggere